Quando ritornò la pace, dopo il 25 aprile 1945, il sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza, lanciò insieme ai partiti della sinistra che governavano la città, ai sindacati, ai movimenti cooperativi e all’Università un progetto di costruzione della vita urbana, a partire dal piano regolatore e dai piani di sviluppo sanitario, scolastico e di edilizia popolare. La fase post-bellica richiedeva un ingegno collettivo e la cooperazione di forze, specialità, interessi diversi, perché complesso e diverso era ciò che doveva essere ricostruito. Infatti, non era andato distrutto semplicemente il territorio, ma la stessa vita civile era da ricostruire, dalle macerie del fascismo. Non penso che la pandemia da Covid-19 sia equiparabile alla guerra perché ci ha lasciato la distruzione non della società ma della socialità, non delle infrastrutture e dei beni materiali, ma del lavoro, di molti lavori, con l’erosione dei risparmi e del potere di acquisto per milioni di cittadini. Le fila dei cittadini alle mense della Caritas e delle parrocchie e ci hanno riportato alla mente le immagine ingiallite delle file per il pane nelle città italiane distrutte dalla guerra. Se non fu una guerra perché non fu un nemico ad attaccarci, la condizione del paese è per molti versi simile a quella del 1945: con un bisogno straordinario di risorse da mobilitare con intelligenza, coordinamento e visione del futuro.

Che siamo in un momento di emergente ricostruzione lo si evince da alcuni fatti macroscopici: i miliardi di finanziamento messi in cantiere dall’Europa e le decisioni del governo italiano di sostenere direttamente con denaro corrente le famiglie e le persone in difficoltà. Il bisogno di liquidità è un segno di distruzione di potere primario. Manca la materia prima per vivere. E le misure di emergenza devono potere essere, come è stato, volte a dare una risposta immediata necessaria. Da qui si deve partire per progettare il dopo. Sopravvivere si deve, ma per potere vivere. Il pane è il primo elemento di vita, ma per avere più del pane. Qui si situa questa “Proposta” che è “radicale” nel senso lessicale: va alle radici del problema, la ricostruzione delle condizioni non per una vita che è di solo pane, non per un lavoro quale che sia. La proposta è coerente al dettato costituzionale – una applicazione per il nostro tempo dell’articolo 3. Se radicale è quell’articolo, radicale deve essere un progetto di ri-socializzazione della vita. È urgente che questa “proposta” venga messa in circolo e discussa, perché la posta in gioco è alta, come si intuisce dalle forze già scese in campo con grande rumore. È innegabile come i cittadini meglio organizzati - tecnicamente, gli interessi particolari più cospicui - siano già ben posizionati nella lotta politica, con notevoli mezzi comunicativi. E gli altri? E la stragrande maggioranza di coloro che sono semplicemente cittadini, come possono far sentire la loro voce per acquisire potenza espressiva e forza contrattuale? Al tempo di Dozza vi erano partiti forti, agguerriti e catalizzatori di specializzazioni e competenze. Oggi, siamo poveri di questi centri politici democratici e dobbiamo ingegnarci per far parlare e discutere dove è possibile: nelle università, nei partiti che sentono di essere non solo istituzionali, nei sindacati, nella miriade di associazioni e iniziative digitali e sui social.

La “proposta” lancia un grido di allarme affinché i grandi propositi di ripresa non si riducano ad una emergenza prolungata, ovvero “compensando” chi è in difficoltà. E apre il cantiere ideologico di quello che nel tempo di Dozza si chiamava “piano per la ricostruzione”: riscoprire “parole fondamentali come “programmazione”, “pianificazione”, “capacità progettuale”, “rielaborate in forme inedite”. La costruzione del linguaggio è parte della lotta che ci attende. E chi ha più potere mediatico e rappresentativo ha già cominciato una guerra preventiva delle parole (significativo l’attacco alla proposta di Romano Prodi di rendere lo Stato protagonista). Parole come “populista”, “statalista”, “sovietico”, “difensore dello stato etico”, “autoritario” sono state messe in circolo già a partire dalle ultime settimane di lock-down per mettere in discussione il ruolo della programmazione pubblica.

Indubbiamente si assisterà ad una battaglia ideologica vera e propria – e ci si deve preparare. Questa “proposta” va in questa direzione ed è, anche per questo, radicale: intervenire in maniera coordinata in tutti i campi dei quali il Covid-19 ha mostrato falle e grandi disfunzioni – “salute, scuola, università, ricerca, riconversione ecologica, riqualificazione dei territori, nuova agricoltura, rigenerazione urbana, beni culturali, cura, tempo libero, innovazione sociale”. Lo scopo è prendere in mano quella promessa solenne scritta nella Costituzione: “È compito della Repubblica”, ovvero del suo governo democratico, “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Se non ora, quando?

Nadia Urbinati è professoressa di Scienze politiche alla Columbia University di New York.