E poi di colpo non c’è più niente. Un secondo prima, il dottore rideva e scherzava con il mio futuro marito, che non stava nella pelle all’idea di quell’incontro, sin da quando eravamo usciti di casa. Poi il dottore ha girato leggermente lo schermo del computer verso di sé, come fanno nei medical drama quando vedono qualcosa che non va. “Allora non è solo per finta che fanno così” è tutto quello che riesco a pensare. Il dottore rigira lo schermo verso di noi, indica un punto in mezzo a una massa di nero e grigio per me indecifrabile: “Purtroppo non c’è più. Ecco, vedete, non è più cresciuto. Evidentemente era malformato, concepito male sin dall’inizio. Capita spesso, una volta su tre, che queste forme ancora agli albori non vadano avanti. La natura fa la scelta migliore, sa già ciò che non potrebbe sopravvivere e lo elimina prima ancora che nasca. Fa una selezione”.

Il mio futuro marito non trova le parole, io non so far altro che piangere. Mi rivesto, ci sediamo, questo sarebbe il momento delle spiegazioni, ma io non so far altro che piangere. Me ne scuso, ma non trovo altro modo. Eppure non sono una sprovveduta, sono persino una pessimista incallita, sapevo che sarebbe potuto succedere. Ma non basta a consolarmi. Poche settimane prima, quelle due lineette rosse totalmente inaspettate mi avevano scompigliato i piani e la vita. Avevamo dovuto anticipare di molti mesi il matrimonio, perché la data sarebbe coincisa- ironia della sorte – con quella in cui sarebbe finito il tempo. Avvisare in fretta e furia tutti gli ospiti, senza però dir loro il motivo, cambiare la data, trasformare una festa invernale in una estiva, ma soprattutto “sfregiare” il mio bellissimo vestito alla Grace Kelly trasformandolo in qualcosa che potesse contenere una sposa con tanti chili in più, le caviglie gonfie e le caldane. Avevamo avuto così tanto da fare che ci eravamo completamente dimenticati del fatto che quella “cosa” lì, di otto settimane, in effetti non era ancora reale. Non era ancora una “cosa” vera.

Il ginecologo mi spiega che è normale, che accade spesso, che sicuramente non ci sarà niente di patologico, ma che altrettanto certamente dovrò fare il raschiamento. Non è uno di quei casi in cui ci si possa aspettare che arrivi un’emorragia per espellere la “cosa”. Mi chiede se voglio farlo subito, il giorno dopo, o se preferisco che ci sia lui. Senza pensarci opto per la seconda opzione. Solo quando siamo in macchina verso casa realizzo che questa attesa di cinque giorni sarà la più lunga della mia vita: cinque giorni, 120 ore con questa “cosa” dentro che non è più niente, che non lo è stato mai. Cinque giorni di nausee, vomito, sonno, dolori al seno e al basso ventre. Cinque giorni di sintomi che non hanno più ragione di esistere nel mio corpo, ma gli ormoni hanno le loro ragioni che la ragione non conosce, direbbe Shakespeare. Come faccio a convincere il mio corpo che quei dolori felici non ci devono più stare dentro di me? Posso solo trasformarli in dolori tristi. Ma non posso assolutamente aspettare cinque giorni, pazienza se non ci sarà il mio dottore, in fondo uno vale l’altro. O no? No.

Mi attacco al telefono, tra Vivaldi e la linea che cade, finché all’ennesimo assordante “Inverno” delle “Quattro Stagioni” la voce mi dice che ormai non si può più fare niente, devo aspettare.

La notte del quarto giorno non riesco a dormire, comincio a pensare che anche io me ne andrò via insieme alla “cosa” e mi convinco che non sopravvivrò all’anestesia. All’alba sono già in piedi e penso “in fondo meglio, sono talmente stanca che tutto mi sembrerà appannato e lontano”. Arriviamo in clinica, il mio futuro marito non può entrare. Mi siedo in una sala d’aspetto, finché sento chiamare il mio cognome. Un’infermiera/segretaria burbera tiene in mano la mia cartella, mi guarda a malapena. Poi urla a una collega che sta dall’altro lato: “questa ha abortito, deve fa’ il raschiamento”. Non c’è dubbio, ora tutti sanno perché “questa” sta qui. Seguo l’altra infermiera, saliamo al piano superiore ed entriamo in una grande stanza. Alla mia destra, tre o quattro mamme sorridenti sfoggiano il loro pancione da trentasette settimane, mentre io cammino a testa bassa, con la mia “cosa”. Un concerto di cuori come cavalli al galoppo, da 150 battiti al minuto, risuona dai loro monitoraggi, mentre io mi sdraio per accertare che nel mio grembo quel battito non ci sia più. Per un attimo spero che si siano sbagliati, ma non faccio neanche in tempo a crederci che la ginecologa mi mostra l’ecografia e mi conferma che “non c’è niente. Ma le dirò di più, non era proprio niente, non era neanche formato, quasi neanche si vede più”. Quell’eco di cuori mi ha dato il colpo di grazia: se fino ad ora ero riuscita a trattenere le lacrime, adesso non ce la faccio. Non so ancora, però, che in camera non sarò da sola. Ad aspettarmi c’è una signora di 45 anni che deve fare il raschiamento come me. Ha provato cinque volte a rimanere incinta e li ha persi tutti. “Questa è l’ultima volta che ci ho provato” mi dice raccontandomi i dettagli, scherzandoci come solo chi ha vissuto una tragedia sa fare e pensando, forse, che condividere è il modo migliore per esorcizzare. Non per me. Io vorrei solo stare in silenzio e piangere e continuo a chiedermi perché non mi hanno messo in una stanza da sola.

Finalmente tocca a me, scendo in sala operatoria con le mie gambe, il mio camice aperto sulla schiena, i miei calzini bianchi e un’immensa solitudine. Me ne resto seduta lì sulla sedia, sotto le luci verdi del neon, mezza nuda, mentre ostetriche e infermieri ridono, scherzano, si informano sul ristorante migliore del quartiere, fanno battute sui turni. Salgo sul lettino, apro le gambe, fisso il soffitto e mi sento un pezzo di carne, mentre nessuno si accorge di me. Sono una pratica da sbrigare, un utero da raschiare. Ridono forte e si prendono in giro in maniera goliardica. Io piango, ma nessuno si accorge di me. Finalmente arriva il mio dottore, mi accarezza la guancia e mi sorride. Non lo dimenticherò mai.

Di ritorno dalla clinica, in macchina, penso a una mia amica che aveva deciso di abortire. Se a me, a cui è capitato, è stato riservato questo trattamento, non oso immaginare cosa sia toccato a lei che lo ha scelto. In comune abbiamo il fatto di essere entrambe, seppure per ragioni diverse, fatte male. Lei una criminale che ha ucciso una vita. Io una donna difettosa, che non ha saputo tenerla. Ho peccato d'ingenuità: mi aspettavo che in un contesto sociale così contrario all’idea dell’aborto volontario, almeno con me che - “poverina”- ne avevo subito uno spontaneo, sarebbero state sfoderate tutte quelle regole di civiltà che vengono negate a chi sceglie di abortire: riservatezza, sensibilità, attenzione, un supporto psicologico forse più necessario a me che ho perso involontariamente la “cosa” a cui tenevo di più, che non a chi (almeno nella maggioranza dei casi) ha fatto una scelta consapevole e ragionata, sebbene altrettanto dolorosa e dura. Ma la mia amica e io non siamo altro che due declinazioni di uno stesso verbo: “quella che vuole abortire” e “questa che ha abortito”. Ho capito che nel nostro contesto sociale ciò che dà fastidio, che stride come le unghie di un gatto su una lavagna, non è l’aborto volontario. È proprio l’aborto in sé. Non si deve vedere, non si deve nominare. Non lo si può proprio accettare. La vita non può fallire, in nessun modo.

Un’esperienza simile ti basta provarla una volta nella vita, ma io faccio il bis. La seconda volta che mi capita, però, so già a cosa vado incontro. Dai valori delle beta hcg, che ripeto ogni tre giorni, ho già capito che qualcosa non va, così mi metto in macchina e vado al pronto soccorso. Stavolta piango prima di arrivarci. La ginecologa tiene gli occhi sulla mia cartella e non fa domande. Mi parla solo per dire di sdraiarmi sul lettino. Tutto è molto veloce. Dall’ecografia constata che potrebbe essere in corso un aborto oppure una gravidanza extrauterina. Me lo comunica come se stesse dettando la lista della spesa e si innervosisce, quando le chiedo come faccio a capire di quale delle due opzioni si tratta (una molto più grave dell’altra): “Che le devo dire signora? Bisogna aspettare”. Mi rimetto in macchina e torno prima che posso a casa, perché la devo pulire da cima a fondo. Passo l’aspirapolvere, lavo i pavimenti, sposto il divano per togliere lo sporco più incrostato, strofino, igienizzo. Tutto, pur di farmi venire un’emorragia ed evitare così un altro raschiamento. Tutto, pur di non finire di nuovo in uno stanzone con future mamme sorridenti che fanno i monitoraggi.