Già tante (oltre 60) le adesioni alla iniziativa di Morozzi e Capponi, tante e prestigiose e provenienti da ogni settore: hanno già firmato, tra le altre e gli altri, anche Anna Valle, Anna Meacci, Katia Beni, il giornalista Rai Valerio Cataldi, Tomaso Montanari, Sandro Ruotolo, Susanna Camusso, Dalida Angelini segretaria generale Cgil Toscana, Claudia Sereni, Paola Galgani, Daniele Calosi, Cristina Arba, la consigliera nazionale di parità Franca Cipriani e la vice consigliera nazionale di parità Serenella Molendini, Enrico Fink, il biologo Duccio Cavalieri, lo storico Fulvio Cervini, lo storico Roberto Bianchi, Vittoria Franco, Barbara Orlandi del Coordinamento Donne Cgil Toscana, Daniela Mori, Claudio Vanni, Serena Spinelli, Sergio Staino e sua moglie Bruna, avvocate, avvocati, medici.  Questo invece il link dove si può leggere la lettera e chiunque potrà firmare per l’adesione: https://letterapergaia.wordpress.com

 

Cara Gaia, dolcissima, ironica, coraggiosa amica. Questa è una lettera di scuse.

Certo, s’intende, è anche una presa di posizione forte, indignata, furiosa, veemente, accanto a te, al tuo fianco.

Ed a sostegno di tutte le donne che, come te, hanno vissuto un’esperienza come quella che hai sentito la necessità di raccontare, della quale qualche idiota inqualificabile ha ritenuto non si dovesse avere rispetto.

A tutte voi dobbiamo delle scuse. Noi, donne che ci riteniamo progressiste, abbiamo mancato. Eravamo convinte, ingenue! Che i diritti civili, frutto di tante battaglie nostre, delle nostre madri, delle nostre nonne, fossero intangibili e fluissero verso il sol dell’avvenire come un fiume inarrestabile. E tra questi, che l’autodeterminazione delle donne ed il loro diritto a disporre liberamente del proprio corpo splendessero fulgidi e duri come il diamante.

Ci eravamo illuse che quella straordinaria stagione di riforme che negli anni 70 ha portato la legge n. 194 (del 1978), consentendo alla donna di scegliere, in sicurezza e riservatezza, di non portare avanti una gravidanza, ma anche il nuovo Diritto di Famiglia (del 1975), la legge sulla maternità nel lavoro (del 1971), la parità uomo-donna nel lavoro (del 1977), non potesse che continuare a fiorire. Che fosse ineluttabile andare sempre avanti. Che tutte quelle leggi di civiltà, con le quali si dava finalmente attuazione ai principi della Carta Costituzionale nata dalla Resistenza, fossero una conquista acquisita, intangibile, uno zoccolo duro su cui costruire un domani migliore per tutte e tutti.

Ci ha pensato la Corte Suprema degli Stati Uniti a darci la dimensione plastica delle volatilità delle conquiste in materia di diritti civili e sociali. Mostrandoci come sia stato facile per 5 giudici conservatori con una sola sentenza, la Dobbs, demolire un caposaldo quale il diritto (federale) all’aborto, che resisteva dagli anni ’70 dopo la famosa pronuncia Roe vs. Wade. Facile, come entrare armati e incontrastati a Capitol Hill con un berretto di pelliccia in testa e devastare tutto.

Che doccia fredda. Pare che non sia finita qui, in pericolo ci sono altre conquiste delle donne e degli uomini americani, come l’uso della contraccezione ed i matrimoni fra persone dello stesso sesso. Da oltreoceano ci vengono segnali inquietanti e come in passato, nel bene e nel male, spesso sono anticipatori di quello che accadrà dopo poco anche in Europa. Le donne ucraine stuprate, rifugiate in Polonia, quando supplicano di poter abortire, sono già in difficoltà. Non è un caso. E’ lo spirito dei tempi? Francamente lo temiamo.

E nel nostro Paese cosa sta succedendo? Non vi è dubbio che i diritti sanciti da leggi dello Stato devono essere rispettati e soprattutto resi effettivi. Un diritto se resta solo sulla carta, privo di applicazione concreta, è come se non esistesse.

La legge n. 194/78 ha passato nel 1981 anche il vaglio di un insidioso referendum abrogativo. Pensavamo davvero che fosse una conquista intangibile, rafforzata dal consenso popolare. Eppure è stata erosa, svuotata dall’interno, depotenziata.

Ricordiamoci come è intitolata, la Legge del 22 maggio 1978, n. 194: Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. Al primo articolo si stabilisce che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Che l’interruzione volontaria della gravidanza, non è mezzo per il controllo delle nascite. Che lo Stato, le regioni e gli enti locali devono promuovere e sviluppare i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite. Che per la prevenzione e gli accertamenti vi deve essere un sistema di consultori sul territorio, capillare, facilmente raggiungibile.

Ricordiamoci che prima del 1978 l’aborto volontario era un reato. Relegato nella clandestinità. Di aborto si moriva. La legge interviene per prevenire, ma quando la gravidanza è indesiderata e la donna riporti “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”, così recita il testo della legge (the black letter of the law, come dicono gli americani), vuole sottrarre la donna in difficoltà alle mamme, al rischio di perdere la propria salute o addirittura la vita. Abortire non è una passeggiata, mai. Ed ecco la costruzione di un sistema di interventi di prevenzione, incentrato sui consultori, sulla contraccezione e poi, se si arriva all’extrema ratio, sulla garanzia di un accoglienza sanitaria rispettosa e gratuita, in sicurezza e riservatezza.

E così per lungo tempo è stato, con un crollo verticale delle interruzioni di gravidanza clandestine ed una enorme diminuzione progressiva degli stessi aborti legali.

Ma noi, che illuse eravamo! Pensavamo che, visti i risultati, l’impianto della legge fosse solido, duraturo, condiviso, che le risorse a lei destinate venissero nel tempo garantite.

Eppure, oggi in Italia, ed anche nella nostra civilissima Toscana, non siamo riusciti a mantenere il livello di assistenza pensato dal nostro legislatore affinché la legge raggiungesse i suoi obiettivi.

In certi territori i consultori non esistono e l’obiezione di coscienza, il cui diritto previsto dalla stessa legge 194 nessuno vuole contestare, impedisce di fatto lo svolgimento del servizio. Neanche un medico o un infermiere disponibile. Chi per spirito di servizio si impegna su tale fronte finisce relegato in un ghetto professionale dal quale non riesce ad uscire. Medico abortista! Uno stigma sociale, non solo per le donne, anche per i sanitari che svolgono la loro pubblica funzione. Inammissibile.

Non puoi abolire l’aborto. Puoi solo abolire l’aborto sicuro. Questa è la verità. Le donne purtroppo si troveranno sempre dinanzi a questo dilemma. Per motivi privati, dolorosi, insondabili, insindacabili. Che hanno diritto di non rivelare, se non vogliono. Ma le donne hanno diritto, grazie ad una legge dello Stato, ad essere accolte in riservatezza in una struttura ospedaliera gratuita e sicura, dove ricevere assistenza secondo i migliori protocolli. E sì, se ve ne sono le condizioni sanitarie, anche dove poter ricevere un farmaco da assumere nella propria abitazione, con tutte le cautele del caso, evitando ricoveri e inutili medicalizzazioni. E senza subire atteggiamenti moralistici, senza essere interrogate, sondate, giudicate da chicchessia. Senza dover percorrere centinaia di chilometri per trovare una struttura ospedaliera accogliente. E senza che alcuno ostacoli, in fatto e diritto, la loro libertà di scelta. E dopo, hanno diritto al silenzio, all’oblio. Ad elaborare la loro esperienza dove e come vogliono, nel rispetto. Anche a parlarne, se ciò sembra loro necessario o opportuno, ma senza subire un pubblico linciaggio.

“Non dimenticare mai che una crisi politica, economica o religiosa, sarà sufficiente per mettere in discussione i diritti delle donne. Questi diritti non saranno mai acquisiti. Dovrai rimanere vigile per tutta la vita” diceva Simone De Beauvoir. Come è vero.

Oggi, se parli di diritti civili da difendere, ti sentirai rispondere che “ben altri” e più importanti sono i bisogni delle persone, come le troppe tasse, l’inflazione o la bolletta del gas. Indubbiamente le criticità economiche ci sono, come negarlo?

Ma nella scala delle priorità che lo Stato deve rispettare, cosa c’è di più importante della salute e dell’integrità fisica di cittadine e cittadini? E la legge 194 si prefigge proprio questo obiettivo, di impedire che le donne di aborto muoiano, come è sempre accaduto nei secoli dei secoli, come ancora oggi a volte accade, ma, per fortuna, in minore misura. Questa è, come dicono i giuristi, lasua ratio. E lo Stato democratico deve garantire che ad ogni donna siano offerte la stessa opportunità, a prescindere dal censo, dalla condizione economico-sociale in cui si trova. Perché al mercato dell’aborto clandestino si rivolgono le donne povere, le immigrate, le minori. A discriminazione si aggiunge discriminazione, anche sulla salute e sull’integrità fisiopsichica, sulla stessa vita.

Già, le minori. I numeri dell’aborto minorile sono sconfortanti. Ci siamo illuse che la prevenzione arrivasse ai nostri giovani, che finalmente nelle scuole entrasse l’informazione sulla vita sessuale, la contraccezione, l’educazione all’affettività, finora delegati alle famiglie ed (ahinoi) ad internet. Nulla di tutto questo. La prevenzione è rimasta un tabù, una parola vuota. Dobbiamo scusarci anche con i nostri figli, maschi e femmine, per non aver fatto abbastanza, per averli lasciati soli in un frangente così delicato per la loro formazione.

Scusaci Gaia, per non aver presidiato e sostenuto abbastanza il tuo diritto a scegliere, in quel particolare momento della tua vita, di non diventare madre. Di autodeterminarti, di disporre liberamente del tuo corpo. Di non doverti giustificare dinanzi a persone che ti definivano “quella”. Che ti giudicavano secondo la loro morale, invece di compiere il loro dovere, in una sanità laica, che ti lapidavano a parole, come si fa con le pietre verso le donne, ancora oggi, in certi paesi.

E accanto a te scusa a tutte le “Gaia del mondo”, a Paola, Fatima, Leila, Claudia, Josephine, Silvia, Irina, Maria, Rosa, Brigitte, Jane e ancora nomi, e ancora donne , scusateci tutte ovunque voi siate, per non aver gridato più forte, nelle manifestazioni, nei cortei, nelle riunioni, nelle assemblee (perché ne abbiamo fatte tante, perbacco, s’intende) in difesa della legge 194, pretendendo, sì esatto, pretendendo che lo Stato, le Regioni e tutta la filiera dei presidi sanitari si assumessero ciascuno le loro responsabilità e garantissero l’effettività dei diritti che nella legge sono sanciti. Battendo i pugni sui tavoli. Chiedendo con veemenza più risorse, più attenzione, più controlli sull’efficacia dei servizi. Più fatti, meno parole.

Intendiamoci, noi ai diritti civili ed alle garanzie abbiamo sempre creduto. Siamo convinte che quando in un Paese si rispettano i diritti delle donne, tutta la società progredisce, perché garantire i diritti delle donne fa avanzare i diritti di tutti. E di questo anche gli uomini devono essere consapevoli, di quanta strada ci sia ancora da fare, insieme, assumendosi ciascuno la propria responsabilità, con senso critico, senza sconti, facendosi carico, mettendoci la faccia.

Oggi è evidente e necessario il fatto che dobbiamo tornare ancora nelle strade, nelle piazze, se occorre nelle aule giudiziarie, alzando la voce, per il diritto all’aborto, per la parità di trattamento nel lavoro, per la parità in famiglia, per la parità nella rappresentanza ecc. ecc.

Come diceva Simone, vigiliamo, donne, vigiliamo, è necessario, per tutta la vita.

Grazie Gaia e grazie a tutte le “Gaia” del mondo.

Abbiamo molto da fare.

Insieme.