“Non dimenticate mai che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione. Questi diritti non sono mai acquisiti. Dovete restare vigili durante il corso della vostra vita”.

Era nell’aria, lo prevedevamo, sapevamo doveva succedere ed è successo. La Regione Umbria, annullando la decisione presa dalla precedente amministrazione regionale di centrosinistra, ha deciso di ripristinare con la deliberazione del 10 giugno 2020, n. 467 l’obbligo di ricovero per tre giorni per le donne che si sottopongono a un’interruzione farmacologica di gravidanza che fino alla settimana scorsa si poteva effettuare in day hospital. Una decisione fortemente criticata dalle opposizioni e dalle associazioni per i diritti delle donne soprattutto perché inserita in una delibera in cui vengono adottate le “Linee di indirizzo per le attività sanitarie nella Fase 3” per l’emergenza Coronavirus. Nella riorganizzazione generale e nell’assenza di linee guida nazionali alcuni ospedali durante la pandemia hanno ridotto gli accessi all’interruzione volontaria di gravidanza e molte strutture hanno sospeso oppure trasferito il servizio, pur rientrando l’aborto in Italia nei cosiddetti Lea, i livelli essenziali di assistenza: cioè nei servizi e nelle prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a offrire, sempre. Se il movimento femminista promette battaglia, la decisione della giunta umbra riceve il plauso, prevedibile in verità, del senatore leghista Pillon, padre di quel decreto sull’affido condiviso mai diventato legge che tante mobilitazioni contrarie della società civile ha visto nei mesi scorsi. Probabilmente mai come oggi la 194 risulta essere sotto attacco e le donne, ancora una volta, pagano il conto di una storia che tristemente si ripete. Una storia lunga e dolorosa, spesso scritta dagli uomini sul corpo e sull’anima delle donne.

“Sono contro l’aborto” scriveva il il 19 gennaio 1975 sul Corriere della Sera un insospettabile Pierpaolo Pasolini: “Io sono per gli otto referendum del partito radicale, e sarei disposto ad una campagna anche immediata in loro favore. Condivido col partito radicale l’ansia della ratificazione, l’ansia cioè del dar corpo formale a realtà esistenti: che è il primo principio della democrazia. Sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano - cosa comune a tutti gli uomini - io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell’aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita è sacra è ovvio: è un principio più forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo. La prima cosa che vorrei invece dire è questa: a proposito dell’aborto, è il primo, e l’unico, caso in cui i radicali e tutti gli abortisti democratici più puri e rigorosi, si appellano alla Realpolitik e quindi ricorrono alla prevaricazione 'cinica' dei dati di fatto e del buon senso. Se essi si sono posti sempre, anzitutto, e magari idealmente (com’è giusto), il problema di quali siano i 'principi reali' da difendere, questa volta non l’hanno fatto. Ora, come essi sanno bene, non c’è un solo caso in cui i 'principi reali' coincidano con quelli che la maggioranza considera propri diritti. Nel contesto democratico, si lotta, certo per la maggioranza, ossia per l’intero consorzio civile, ma si trova che la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo. Perché io considero non 'reali' i principi su cui i radicali ed in genere i progressisti (conformisticamente) fondano la loro lotta per la legalizzazione dell’aborto? Per una serie caotica, tumultuosa e emozionante di ragioni. Io so intanto, come ho detto, che la maggioranza è già tutta, potenzialmente, per la legalizzazione dell’aborto (anche se magari nel caso di un nuovo referendum molti voterebbero contro, e la “vittoria” radicale sarebbe meno clamorosa). L’aborto legalizzato è infatti - su questo non c’è dubbio - una enorme comodità per la maggioranza". 

Quello stesso anno anche lo scrittore Claudio Magris interveniva sulle pagine del Corriere esprimendo una posizione fortemente antiabortista e a tratti misogina che arrivava a irridere le misure igieniche in un articolo intitolato "Gli sbagliati". A rispondere con una lettera pubblica fu un durissimo Italo Calvino: “Nell’aborto chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell’uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi la lingua tre volte. Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale impiega la sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un bell’incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle misure igienico-profilattiche; certo, a te un raschiamento all’utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t’obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo vitalismo dell’integrità del vivere è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite”.

Parole tristemente attuali, anche oggi, soprattutto oggi.