Esiste il lavoro minorile nel nostro Paese? Se pensiamo ai bambini sfruttati nelle miniere, nella produzione dei tappeti, in agricoltura - lavori legati a condizioni di forte arretratezza e povertà presenti in altre zone del mondo, la risposta è ovviamente no. Ma gli studi, soprattutto di matrice sindacale, che dalla fine degli ‘90 hanno contribuito a studiare il fenomeno, sostengono, dati alla mano, che anche in Italia ci sono forme di lavoro precoce dei minori, illegale ai sensi della norma nazionale di accesso al mercato del lavoro che sancisce il divieto di lavorare prima dei 16 anni.

L’ultima indagine disponibile sul lavoro minorile, realizzata dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil e da Save the children nel 2013 e basata su oltre 2.000 interviste, stima che in Italia i minori di 16 anni con una qualche esperienza di lavoro siano circa 340.000, cioè il 7% della popolazione. Si tratta soprattutto di ragazzini tra gli 11 e i 15 anni, pre adolescenti e adolescenti che frequentano la scuola media o si trovano nei primi due anni della scuola superiore. Tra di loro, c’è chi è impegnato in attività occasionali, di breve durata; chi svolge attività regolari per più di 6 mesi nell’anno; chi fa lavori che impegnano più o meno tutti i giorni o per diverse ore al giorno; i più lavorano solo di pomeriggio e la mattina frequentano la scuola, ma non sono pochi quelli che sono impegnati anche di mattina; c’è chi lavora solo nel periodo estivo.

Una particolare attenzione va data ai circa 55.000 minori che fanno lavori continuativi, che li impegnano cioè per almeno 3 mesi all’anno, almeno una volta a settimana e almeno 2 ore al giorno. E ai circa 28.000 che appartengono all’area a rischio di sfruttamento, perché lavorano in fasce orarie serali e notturne e sono impegnati in attività per cui interrompono spesso la frequenza scolastica, talvolta definite pericolose.

Quello che accomuna quasi tutti i ragazzini con esperienze di lavoro minorile sono gli episodi e i vissuti di insuccesso formativo: spesso sono stati bocciati durante la scuola media, la maggior parte ha un giudizio sufficiente di licenza media, hanno un’idea del loro futuro investito nel mondo del lavoro e non a scuola. Vivono principalmente in territori socio-economicamente fragili e che offrono pochissime opportunità educative: periferie delle aree metropolitane, zone del sud del Paese, aree interne. E vivono spesso in famiglie, i cui genitori hanno bassi titoli di studio e che tendono a riproporre ai figli i propri modelli di vita, in cui non si investe su percorsi scolastici di lungo periodo e sulla ricerca di un buon lavoro ‘da grandi’, ma sull’imparare velocemente un mestiere e andare a lavorare presto, anche in nero se necessario. Tant’è che la maggior parte dei minori lavora per o con i propri genitori, nel mondo delle piccole e piccolissime imprese a gestione familiare.

Lavoro minorile e povertà educativa sono le due facce della stessa medaglia. Per questo fin dagli anni ’90, il sindacato cercava di approfondire il fenomeno: aveva intuito quello che oggi i dati europei ci mettono di fronte quotidianamente, che se non fossimo intervenuti sui tanti ragazzini con esperienze di lavoro minorile, avremmo avuto tantissimi giovani in possesso della sola licenza media, i cosiddetti Early School Leavers, di cui l’Italia negli ultimi anni detiene drammaticamente il primato europeo. Così come aveva intuito che avremmo avuto tantissimi Neet, giovani che non lavorano e non studiano, spesso con bassi titoli di studio.

Cosa si può imparare da un’esperienza di lavoro in nero, spesso mal pagata, in cui difficilmente ti viene insegnato un mestiere, piuttosto ti utilizzano per mansioni poco qualificanti che gli adulti non vogliono fare? Quali competenze puoi acquisire per avere maggiori opportunità di inserimento e reinserimento occupazionale, se si lascia troppo presto la scuola, senza raggiungere nemmeno una qualifica professionale? Poche, pochissime, quindi dopo aver fatto qualche lavoretto ‘da piccoli’ si resta a casa, senza formazione, senza un lavoro, come i tanti giovani Neet del nostro Paese.

Nel passato la voce del sindacato non è stata ascoltata: le istituzioni non hanno studiato il lavoro minorile, né sono intervenuti con azioni di prevenzione e contrasto. Non possiamo più permettercelo, soprattutto nell’attuale periodo dell’emergenza sanitaria. La sospensione delle attività didattiche in presenza e il mancato raggiungimento di molti minori tramite la didattica a distanza, infatti, hanno allargato la forbice dei divari negli apprendimenti, hanno ridotto ulteriormente le opportunità educative dei territori e stanno producendo nuove e più profonde disuguaglianze sociali fin dalla prima infanzia.

Alla riapertura delle scuole a settembre, è elevatissimo il rischio che molti minori abbiano accumulato tali ritardi negli apprendimenti da non farcela a seguire il nuovo anno scolastico oppure che non rientrino proprio a scuola soprattutto nei primi due anni della scuola superiore. Bisogna agire subito a partire dai mesi estivi, utilizzando i finanziamenti del Fondo per la famiglia destinati a progetti di contrasto alla povertà educativa e le risorse del Pon Scuola a disposizione delle scuole, per realizzare attività educative per il recupero relazionale e motivazionale in chiave di accompagnamento all’avvio del nuovo anno scolastico e per il riallineamento degli apprendimenti con l’obiettivo di ridurre i divari presenti tra i minori più svantaggiati e colmare il learning loss.

È una questione cruciale che oggi deve entrare come priorità nell’Agenda di governo e nel dibattito pubblico: ha a che fare con il futuro del nostro Paese, con un nuovo modello di sviluppo che metta al centro la persona e i suoi bisogni primari, tra cui la scuola e il diritto all’istruzione sono tra i principali per garantire la partecipazione alla vita democratica del nostro Paese, il coinvolgimento dei lavoratori nella tutela dei loro diritti, il sostegno alla crescita economica e sociale dell’Italia.

Anna Teselli, Cgil nazionale, è una ricercatrice nel campo delle politiche sociale