Per Fillea fu sin da subito chiaro che occorresse superare l’idea di una ripresa basata sulla polarizzazione da un lato dalle ristrutturazioni agevo-late11 e dall’altro dagli investimenti sulle grandi opere. L’idea del costruire, intesa come lavorare per il nuovo, doveva integrarsi con la necessità sempre più evidente di recuperare e ristrutturare l’esistente, che si estendeva cioè a tutto il patrimonio territoriale, ambientale, urbanistico e culturale. Una idea sempre più nuova e moderna di costruire, in cui si affacciava l’enorme potenzialità presente nelle attività di recupero e valorizzazione dell’ambiente e del territorio, di riorganizzazione delle città e dei servizi, di restauro dei beni culturali.

Si trattava di svincolare l’idea del costruire da quella di invadere e speculare, al fine di agire per uno sviluppo che fosse finalmente sostenibile, soprattutto per via di quelle sfide legate ai grandi mali del pianeta, come le crisi energetiche e ambientali, il surriscaldamento climatico, l’esaurimento delle risorse e delle fonti non rinnovabili. Le costruzioni per molto tempo sono state accostate all’idea della speculazione edilizia, delle lottizzazioni nonché alle questioni inerenti agli intrecci tra affari politica e mafia, basti pensare all’effetto generato sul settore da Tangentopoli. Tutte questioni queste difficilmente associabili ai valori positivi del lavoro, per cui fenomeni come lavoro nero e illegale, morti nei cantieri ed altro, nel pensiero comune, venivano identificate in modo fisiologico, quasi normale, alla nostra attività lavorativa, «come pure l’idea che questo settore fosse per definizione irrimediabilmente un settore sporco, pericoloso, a basso valore aggiunto, un’attività quasi primitiva, dato che il modo di costruire appare a prima vista sostanzialmente immutabile nel tempo, a partire dagli arnesi di mestiere».

Ci si trovò di fatto di fronte alla necessità di rendere compatibile sviluppo e ambiente, di far emergere cioè il nesso fra sostenibilità dello sviluppo e diritti, «per la semplice ragione che uno sviluppo che sprechi o di-strugga le risorse materiali non è affatto preoccupato, non è interessato a valorizzare la prima alle risorse naturali, cioè, il capitale umano». Il mercato della sostenibilità offre infatti l’occasione di valorizzare le competenze professionali, di dare risposte adeguate ad una occupazione e ad una industrializzazione qualificate, smentendo l’idea che le costruzioni non potessero essere un luogo di innovazione. Si cercò di imporre l’idea di una forte alleanza con scienza e tecnica e ciò non solo nell’edilizia ma anche nei settori a maggiore vocazione industriale, come il legno, il ce-mento, il settore estrattivo.

Da qui prese piede anche l’interesse per la bioedilizia, un modo nuovo di costruire a partire dall’uso dei materiali passando per le tecniche costruttive ispirate da un nuovo rapporto tra consumo delle risorse ambientali ed energetiche. «Per un sindacato fatto di muratori, cavatori, cementieri, di addetti alle fornaci dalle quali vengono sfornati laterizi, o di quelli più frequentemente occupati negli impianti di manufatti in cemento, immaginare l’esistenza di un nuovo pianeta del costruire ha voluto significare affrontare contemporaneamente il fascino e lo scetticismo». E per anni parlare di questi argomenti ha significato essere guardati con so-spetto, tanto era diffusa la convinzione che i temi dell’ecologia fossero lontani dalla realtà – tanto da arrivare a nutrire la convinzione che persino la sicurezza fosse un costo piuttosto che un investimento, dimostrando pigrizia politica e culturale, e scarsa lungimiranza.

Quello che secondo Martini si è sostanzialmente verificato sicuramente a partire dagli anni di Tangentopoli è stato l’espungere dal lessico politico i temi territoriali/urbanistici, col conseguente abbandono di una seria programmazione dell’uso del territorio: «Il termine urbanistica è presso-ché in disuso, il regime dei suoli, sembra accezione appartenente ad un passato remoto della vicenda politico amministrativa locale e nazionale. L’abbandono del primato dell’urbanistica, di quella che giustamente può considerarsi la via maestra nel governo del territorio, in parte può essere attribuito all’idea che la modernità di un paese si debba misurare essenzialmente in termini di grande infrastrutturazione, creando un falso dualismo, che niente a che fare con le reali necessità dello sviluppo di questo paese. La sostenibilità ambientale non considera la grande infrastruttura un disvalore …, non si traduce in un approccio ostile verso le grandi opere, che possono senz’altro essere viste come strumento di uno sviluppo che non guardi soltanto – se pensiamo ad esempio all’alta capacità ferroviaria o autostradale, alla mobilità in quanto tale, ma si inquadri in un’ottica fatta di reti, servizi, formazione».

Nel chiedersi che fine avesse fatto l’urbanistica in Italia, Fillea intende-va rilanciare la centralità, perché «se le case in buona parte vanno rifatte è anche vero che le stesse reti cittadine vanno ricondotte ai piani regolatori del sottosuolo che non esistono più, così come i servizi e la mobilità». È il disegno complessivo del territorio che deve guidare le singole scelte settoriali, e in tal senso è più chiaro come esista un nesso tra sostenibilità e diritti: lo sviluppo che passa attraverso la sostenibilità infatti decide di dare valore alle risorse ambientali cercando di migliorare la visione che si ha del settore edilizio. Bioedilizia, biomateriali, sono concetti con i quali dobbiamo misurarci. Sono concetti antitetici al modo come le imprese tentano oggi di stare sul mercato. Sono concetti antitetici alla competizione basata sulla riduzione dei costi, proprio perché, si dice, la bioedilizia costa.

Ecco perché rivendichiamo una politica fiscale finalizzata, come per altro esiste in buona parte degli altri paesi europei. Le imprese che scelgono questo versante devono essere aiutate e lo possono essere solo se il governo fa una scelta chiara in questa direzione, ciò che non è allo stato delle cose. La stessa Associazione dei Costruttori da tempo ha lanciato l’idea della «casa del futuro», il marchio «Casa Doc», proponendo di riaprire il confronto sulla politica urbanistica in questo paese, ormai sotterrato da anni ed ancor di più dalla politica dei condoni e delle sanatorie. Materiali rinnovabili, energia rinnovabile, politiche fiscali finalizzate e normative di sostegno, potrebbero essere gli ingredienti per una sperimentazione da attuare sul terreno della programmazione locale di sviluppo. Sicuramente materiale per elaborare contenuti nuovi della contrattazione e della concertazione territoriale.

Come costruire è il tema del lavoro, della sua qualità. Questo è il terreno sul quale siamo più impegnati e sul quale è sufficiente richiamare i concetti principali. Non esiste modernità di una opera che non contenga quale fattore di progresso la stessa qualità e civiltà del lavoro che la rea-lizza. Su questo terreno siamo proprio lontani dall’obiettivo. È il terreno sul quale più di ogni altro può essere dimostrata la tesi che non esiste rapporto automatico tra crescita economica e innovazione qualitativa. In edilizia si continua a lavorare e a morire come negli anni della crisi e forse peggio.

Per questo l’investimento sul capitale umano è per noi aspetto centrale della sostenibilità dello sviluppo. Se dovessimo cercare sinonimi capaci di esprimere il nostro concetto di sostenibilità e li individuassimo – tra gli altri – in valorizzazione, innovazione, cultura, civiltà, rispetto è del tutto evidente che il lavoro umano, la battaglia per la sua qualità in edilizia rappresenta una chiave di volta della nostra battaglia per lo sviluppo sostenibile. Su questo terreno siamo al fronte tutti i giorni, ma è chiaro che dalle idee e dalle proposte che stiamo discutendo non può che venire un contributo concreto, sia per il respiro strategico più ampio, sia per le opportunità offerte all’iniziativa negoziale del sindacato.

La riconversione ecologica dell’edilizia non è operazione che possa essere svolta con un sistema povero, a bassissima capitalizzazione, come è prevalentemente il sistema delle imprese italiane del settore, tanto più essendo diffusa l’obiezione che il costruire sostenibile è un lusso, una spesa non compatibile con la finanza pubblica e con la forza economica delle imprese.