La teoria economica mainstream sottolinea il vantaggio complessivo dell’integrazione economica globale: l’idea preminente è che l’aumento di prosperità a scala mondiale sia l’esito di uno sviluppo economico «a cipolla» (Di Meglio, 1997) che, a partire dai paesi più avanzati, beneficia progressivamente tutti gli altri. L’integrazione delle attività produttive in una divisione globale del lavoro, accompagnata da adeguate politiche (ad es. liberalizzazioni, apertura commerciale, privatizzazioni) viene vista in termini pienamente positivi in quanto permette alle forze di mercato di distribuire le risorse in maniera efficiente nelle aree con maggiore produttività e maggiori ritorni sugli investimenti. In altri termini, nel contesto di adeguate condizioni macro-economiche, le strutture produttive globali si conformano alle regole dello scambio di mercato in maniera tale da riflettere vantaggi nazionali comparati che, nel lungo periodo, sviluppano complementarità, convergenza di reddito ed equilibrio a scala globale. L’esito, favorevole principalmente per i paesi meno sviluppati, sarebbe pertanto una redistribuzione generalizzata del benessere (Chang, Grabel, 2004; De Benedictis, Helg, 2002; Della Posta, 2005).

Questo tipo di interpretazioni entusiaste e del tutto acritiche sui benefici della globalizzazione sono state presto affiancate da posizioni più articolate che hanno messo in luce la maggiore complessità dei processi in atto, soprattutto in relazione al mondo del lavoro. Il dibattito ha ruotato in larga misura intorno alla questione dei rapporti tra Nord e Sud del mondo e alla strategia politica del capitale finalizzata al disciplinamento della forza lavoro su scala globale (Taylor, 2008; Munck, 2002; Mezzadra, Neilson, 2014).

Pur riconoscendo l’indeterminatezza degli esiti inscritti nell’operare delle reti di produzione globale, queste analisi vanno nella direzione di avvalorare il meccanismo cardine che soggiace ai processi di accumulazione del capitalismo globale e che consiste nella produzione e riproduzione di differenziazioni e asimmetrie sia sotto il profilo economico che sotto quello lavorativo: di conseguenza tali riflessioni tendono a sottolineare gli effetti negativi della globalizzazione sul lavoro. Secondo altri, l’effetto redistributivo dell’occupazione a scala globale si scontra con le pressioni «al ribasso» esercitate sulle relazioni e sui nodi più periferici della catena produttiva: a farne le spese sono i lavoratori più vulnerabili e, soprattutto, quelli delle aree marginali dell’economia mondiale. L’enfasi sulle implicazioni negative specifiche per i lavoratori del Sud del mondo si accentua in talune letture ed è in parte ascrivibile allo slittamento concettuale che identifica il vantaggio delle imprese principali, spesso del Nord del mondo, con il vantaggio dei lavoratori delle imprese del Nord.

La prospettiva delle Cgv si distingue per confutare la visione secondo la quale la nuova divisione internazionale del lavoro corre essenzialmente lungo la direttrice Nord-Sud, secondo dinamiche prevalenti di subordinazione e sfruttamento. Le strategie delle imprese, guidate dall’incessante imperativo del profitto da realizzare anche attraverso la valorizzazione della dimensione spaziale, non coincidono esclusivamente e genericamente con la ricerca di forza lavoro a basso salario. Oltre a valutazioni di costo, la nuova organizzazione della produzione mondiale sembrerebbe mirare all’inclusione di forze di lavoro dotate di specifiche caratteristiche, quelle stesse che assicurano l’accumulazione e che generano e amplificano le differenze sociali esistenti.

Come spiegano tra gli altri Tsing (2009), Mies (1998) e Huws (2012), soprattutto alcune catene del valore dipendono da una serie di fattori non economici o di diversità, come il genere, la razza, l’etnicità; per i lavoratori coinvolti diventa quindi difficile, se non impossibile, negoziare la prestazione di lavoro al di fuori di tali aspetti. Discutendo il caso dell’India, ad esempio, Rammohan e Sundaresan (2003) dimostrano come il potere economico del capitale si incroci con specifiche costruzioni socio-culturali che configurano il lavoro delle donne come lavoro a basso costo. I processi di sviluppo sono essenzialmente processi sociali in cui variabili produttive, organizzative, tecniche si legano a variabili sociali e istituzionali, contestualmente specifiche, influenzandosi vicendevolmente. L’organizzazione produttiva e spaziale secondo reti globali del valore ha quindi coinvolto i lavoratori e il mondo del lavoro in molti modi e alle diverse latitudini e le dinamiche degli uni sono inevitabilmente intrecciate con quelle degli altri. Come nei paesi meno sviluppati, anche in quelli industrializzati gli interrogativi ruotano intorno ai mutamenti relativi alle condizioni di lavoro, ma anche alle conseguenze in termini di identità occupazionale e solidarietà di classe e tra le classi (tra gli altri, Ramirez, Rainbird, 2010; Rama, 2003; Huws, 2012; Bieler, 2014).

Più in generale, si è cercato qui di sostanziare con evidenza scientifica la controversia emersa primariamente sui media riguardo agli esiti dell’internazionalizzazione della produzione proprio sull’economia e il lavoro. Nel caso del lavoro si sottolineano principalmente due aspetti. Da un lato, si osserva la perdita netta di occupazione: la scelta delle imprese e delle multinazionali di perseguire l’opzione della delocalizzazione o altre strategie di penetrazione dei mercati emergenti finisce per spostare il baricentro produttivo nei paesi che consentono minori costi produttivi e soprattutto della manodopera, con il risultato di ridimensionare la forza lavoro nei paesi più sviluppati.

Dall’altro, si evidenzia che la distruzione di posti di lavoro riguarda prevalentemente, anche se non esclusivamente, quelli meno qualificati. I lavoratori con basse competenze professionali e minori opportunità di formazione ma con salari relativamente elevati sono quelli maggiormente esposti ai cambiamenti tecnologici e produttivi. In linea generale e per tutti, si denuncia l’indebolimento della capacità di contrattazione collettiva con l’effetto di comprimere salari reali e diritti.