Il libro
Udi, emancipazione e liberazione

Rosanna Marcodoppido è autrice di "Donne, una storia di lotte e libertà" (Futura editrice), racconto appassionato e critico della battaglia per i diritti al femminile
Verso la fine degli anni ottanta il quadro politico internazionale stava cambiando. Il comunismo come sistema politico ed economico nei paesi del “socialismo reale”, soprattutto dopo il disastro di Cernobyl, era entrato in profonda crisi, non sembrava più credibile e stavano per crollare gli assetti politici di quelle realtà, compresa l’Unione Sovietica dove quattro anni prima era stato eletto segretario del partito Gorbaciov che, nel tentativo di coniugare giustizia sociale e libertà individuale, aveva inaugurato una coraggiosa stagione di riforme. Il 9 novembre del 1989 il muro di Berlino, simbolo tragico della guerra fredda, fu preso a picconate da una folla in preda a un grande entusiasmo. Fu un momento straordinario, chiaro segnale di un processo ormai irreversibile, con immagini che attraverso la televisione arrivarono in tutte le case. Tre giorni dopo il segretario del Pci Achille Occhetto, durante un’assemblea a Bologna al rione Bolognina, annunciò la fine dell’esperienza storica del Pci e, con l’intento di unificare le forze democratiche e progressiste che agivano nel solidale, propose una rifondazione del partito col cambio di nome e l’avvio di una fase costituente.
Lo sconcerto di buona parte degli iscritti/e fu grande e aprì la strada a contrapposizioni dolorose, che lacerarono a lungo persino famiglie e amicizie consolidate. Sulla proposta di cambiare nome e simbolo per dare vita a una nuova formazione della sinistra le comuniste si divisero tra il sì e il no e produssero due distinti documenti che sancirono la fine del patto che le aveva portate alla stesura di un progetto unitario con la Carta Dalle donne la forza delle donne. Le ragioni del no furono illustrate nel documento La nostra libertà è solo nelle nostre mani, scritto da Franca Chiaromonte, Maria Luisa Boccia, Letizia Paolozzi, con riferimenti espliciti alla teoria e pratica della Libreria delle donne di Milano; le ragioni del sì erano portate avanti da un gruppo animato da Livia Turco, che da tempo proponeva un «partito dei due sessi».
Tra le due posizioni non ci fu purtroppo nessuna mediazione, ma solo contrasti, con tentazioni e derive di delegittimazione reciproca. Al centro di questo aspro dibattito a ben guardare c’era quella crisi delle forme della politica che l’Udi al suo XI Congresso con lucidità, lungimiranza e coraggio aveva anticipato, ma nessuna/o ne fece cenno in quell’occasione e, delle tante intervistate sulla vicenda nel libro a cura di Roberta Tata[1]fiore A prova di donna pubblicato nel ’90, solo Giglia Tedesco, Anita Pasquali e Edda Billi ne parleranno. Né l’Udi entrò mai ufficialmente nel dibattito in corso nel Pci e tra le donne di quel partito, nonostante fossero ancora molte le comuniste presenti nell’associazione. Come è noto, col XX Congresso che si tenne nel febbraio del 1991, il partito cambiò il proprio nome in Pds, Partito democratico della sinistra e, nonostante nello statuto ci fosse la definizione di «partito di donne e uomini», continuerà a man[1]tenere, nelle pratiche e nei contenuti, la radice maschile delle sue origini, incapace di riconoscere pienamente il valore politico della differenza sessuale. Anche all’interno della Cgil nella seconda metà degli anni set[1]tanta c’erano stati innesti di femminismo con la nascita di collettivi nei luoghi di lavoro e con l’utilizzo delle 150 ore.
A Torino nel ’75 era nata l’Intercategoriale donne Cgil Cisl Uil e subito dopo il Coordinamento donne Flm che riuniva a riflettere insieme, avendo come pratica l’autocoscienza, metalmeccaniche, delegate sindacali, docenti universitarie, casalinghe, disoccupate e anche le studenti. Negli anni ottanta erano nate alcune interessanti esperienze segnatamente femministe come il gruppo del martedì della Camera del lavoro di Brescia dell’84 e anni dopo il gruppo del venerdì di Roma. Quest’ultimo, richiamandosi alla Libreria delle donne di Milano e al Virginia Woolf, attraverso l’autocoscienza e la pratica dell’affidamento, intendeva costruire autorevolezza femminile nel sindacato. Ne facevano parte tra le altre Giuliana Campanaro, della pedagogia della differenza del Virginia Woolf approdata in seguito all’Udi La Goccia, Angela Ronga che proveniva dal collettivo femminista comunista di via Pomponazzi, Patrizia Sentinelli, allora segretaria generale della Cgil Scuola di Roma, e Barbara Pettine della Fiom. Ad anni di distanza parlano di questa esperienza.
Avevano distribuito quattromila questionari sulle molestie nei luoghi di lavoro da cui era emerso che non poche erano le lavoratrici che ne erano vittime, ma che solo alcune avevano avuto il coraggio di denunciare. L’iniziativa era partita da alcuni dati emersi da ricerche effettuate in alcuni paesi europei secondo cui erano risultate molestate il 34 per cento in Belgio, l’84 in Spagna, il 58 in Olanda, il 22 in Irlanda del Nord, il 51 in Inghilterra e il 59 in Germania. A seguito di queste denunce si ottenne un primo importante risultato quando nel contratto dei metalmeccanici vennero introdotte le molestie sessuali come abuso di potere se praticate da un superiore. Ma anche in ambito sindacale l’esperienza femminista determinò fin dall’inizio confronti divisivi tra chi si batteva contro le discriminazioni nei luoghi di lavoro e nell’accesso alle posizioni apicali all’interno della Cgil e chi, puntando sulla differenza, tentava di immettere nell’orizzonte sindacale le pratiche più radicali del femminismo.
La divisione era in sostanza tra emancipazione e liberazione, due differenti progetti politici erroneamente collocati su posizioni nettamente contrapposte, senza vederne i nessi. Anche qui l’inciampo era rappresentato dall’incapacità a costruire una forte e duratura alleanza tra donne al di là delle differenze. Il sindacato restava perciò modificato solo in piccola parte, lontano dall’essere un «sindacato di donne e uomini», come molte di loro desideravano. Ho solo accennato al travaglio delle donne del Pci e della Cgil, che in verità meriterebbe un ben più articolato discorso, ma quel[1]lo che mi preme mettere in evidenza in questo contesto è la mancanza ovunque, in quegli anni, di una capacità alta di mediazione tra donne in grado di contrastare l’ordine delle cose stabilito dagli uomini.
Un ulteriore esempio è rappresentato da ciò che stava succedendo anche nell’Udi. La legge in discussione al Parlamento sulla violenza sessuale continuava ad essere motivo di lacerazioni profonde tra le iscritte, divise tra procedibilità d’ufficio e querela di parte. Il 17 febbraio dell’89 fu siglato un appello nella sede della Goccia per la manifestazione che si svolse il 23 a Roma sulla piena applicazione della 194 e per l’approvazione della legge contro lo stupro. Il volantino Basta con la colpevolizzazione delle donne! Basta con la “tutela” degli stupratori! e il comunicato stampa portavano la firma del Coordinamento femminista contro lo stupro, il Comitato promo[1]tore della legge, il Comitato femminista per la trasformazione della giustizia, il Centro femminista internazionale Alma Sabatini, i collettivi Pompeo Magno, donne Com-Nuovi Tempi, Quotidiano donna e i circoli Udi La Goccia, Monteverde e Nemorense. Un corteo si mosse da piazza Santa Maria in Trastevere e si concluse a piazza dei Massimi, dove il 6 marzo ’88 era stata violentata Maria Carla Cammarata, detta Marinella, la quale prima di morire a novembre, 4 giorni dopo la vergognosa uscita dal carcere dei suoi tre violentatori, aveva detto: «Io spero in un mondo in cui a mia figlia non succeda quello che è successo a me».
L’iniziativa suggeriva un momento di grande unità, ma le cose stavano purtroppo diversamente. In Parlamento infatti si stava consumando una divisione aspra tra le parlamentari, sottoposte a lo[1]ro volta a pressioni divergenti da parte di esponenti del movimento. Erano stati scritti due differenti appelli, uno a sostegno della procedibilità di ufficio e l’altro per la querela di parte e in entrambi erano apparse firme di donne Udi. La spaccatura nella sua evidenza fu vissuta da molte come uno scacco, un deficit di comunicazione e confronto; io, Mariangela Tedde, Marinella Brugnettini, Ansalda Siroli e Rosangela Pesenti inviammo un telegramma alle responsabili di sede per chiedere come mai quelle differenze, ciascuna con le proprie legittime ragioni, non avessero trovato nell’Udi uno spazio adeguato per dirsi e aggiungevamo: «Vorremmo discutere, nella riunione del Gruppo preparato[1]rio dell’autoconvocazione, come abitare il luogo Udi, rendendo dicibili e gestibili le nostre differenze». Come ho già detto, il femminismo non è certamente riducibile a un’unica teoria politi[1]ca, poiché restava e resta dentro una sperimentazione individuale e collettiva che apre sempre nuovi spiragli e grovigli da sbrogliare.
Questa consapevolezza c’era, ma nello stesso tempo non era di conforto quello che si aveva di fronte: noi donne riuscivamo purtroppo a depotenziare la forza di cui eravamo portatrici e mostravamo una propensione particolare ad esporre conflitti, piuttosto che imparare a governarli. La frustrazione generale era palpabile.