Precari ricercatori, il governo dà i numeri

Licenziare i precari per ridurre il precariato non sembra essere una proposta di sinistra, sfortunatamente è contenuta in una disposizione della finanziaria, confermata nel maxiemendamento. Infatti una disposizione impone che negli enti pubblici, e in particolare negli enti di ricerca, la spesa per con1tratti a tempo determinato e co.co.co. non superi per il 2007 il 40% di quella in essere nel 2003. Gli effetti di ogni norma devono essere giudicati dal contesto in cui si applica. Anche se sono convinto che sia insensata in generale, mi limiterò a discuterla per gli enti di ricerca, dove la situazione mi è molto chiara per diretta esperienza personale. Qui l’effetto principale sarà di ridurre a zero il numero di contratti rinnovati e di nuovi contratti a tempo determinato, in quanto la sola spesa per il personale precario non in scadenza supera di gran lunga il 40% del 2003 e non ci sono più margini di manovra. Infatti una norma del genere potrebbe anche essere utile per combattere il precariato se gli enti di ricerca fossero liberi di procedere ad assunzioni a tempo indeterminato; tuttavia questo non è: un altro articolo della finanziaria pone dei limiti molto stretti sulle nuove assunzioni che, a parte interventi straordinari, sono proporzionali ai pensionamenti e possibili solo a partire dal 2008

 Limitare contemporaneamente sia i contratti a tempo indeterminato sia quelli a tempo determinato Precari ricercatori, il governo dà i numeri L 121 e co.co.co., implica necessariamente dover licenziare gli sfortunati precari il cui contratto scade nel 2007 (in alcuni enti di ricerca – per esempio nel Cnr – molti precari il cui contratto scadeva nel 2006 sono stati più fortunati in quanto hanno avuto il loro contratto pro1rogato, il 30 dicembre del 2005, per altri cinque anni, senza nessuna valutazione di merito, per evitare gli effetti di un’analoga norma contenuta nella finanziaria 2006, che riduceva la percentuale al 60% del 2003). Non rinnovare i contratti in scadenza è particolarmente grave negli enti di ricerca, dove esistono molti contratti fatti per due anni rinnovabili per altri due e il rinnovo è sempre stato, a meno di inconvenienti gravi, un fatto del tutto formale. Non parliamo poi dei ricercatori più giovani, cui questa norma sbatte la porta in faccia per diversi anni, in quanto le poche assunzioni a tempo indeterminato sarebbero monopolizzate dai colleghi più anziani.

Si tratta dunque di una norma folle, che non comporta nessun risparmio in quanto non incide sul bilancio totale a disposizione degli enti ma ne vincola in maniera irragionevole l’utilizzo; questa disposizione deve essere semplicemente eliminata: è una delle tante eredità funeste del governo Berlusconi che l’attuale governo esita a cancellare e che a volte peggiora. In un qualunque paese ragionevole, prima di pro1porre una norma del genere sarebbe stato eseguito uno studio dettagliato degli effetti, dei vantaggi e degli svantaggi di un tale provvedimento per decidere se la percentuale più opportuna sia il 40% o per esempio il 75%. Questo studio non è stato fatto, la percentuale è stata scelta in maniera del tutto arbitraria dall’ignoto estensore della norma, ignorando i problemi reali. È triste dover osservare che molti provvedimenti di questo governo si basano su percentuali scelte in maniera cervellotica, indipendenti dal dominio concreto di applicazione, come per esempio il taglio del 20% dei consumi intermedi, il taglio del 12,7% delle spese ministeriali, disposizioni da applicare in maniera uni1forme a tutti i settori della spesa pubblica senza distinzioni di comparto e senza entrare nel merito. Il governo si limita a dare i numeri. Un vecchio slogan del ’68 diceva «l’immaginazione al potere». Sembra che ora questo sogno si stia realizzando, ma sotto forma di incubo.

(30 novembre 2006)


Quei tagli alla ricerca distruggono il futuro

La legge 133, presentata a giugno e approvata in agosto nella quasi totale indifferenza, prevede due disposizioni estremamente pesanti per l’università e la ricerca: la riduzione del 10% della pianta organica degli enti di ricerca e il quasi totale blocco delle assunzioni nelle università per i prossimi anni (un nuovo assunto ogni cinque pensionamenti), con la contemporanea diminuzione dei finanziamenti. Sono provvedimenti terribilmente preoccupanti. L’Italia è attualmente il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda le attività di ricerca e sviluppo. La percentuale di queste attività, rispetto al Pil, è di poco più dell’1%, di fronte a una media europea del 2% abbondante. Lo scarso impegno dell’Italia in questo settore è ancora più grave se paragonato a quello decisamente superiore dei paesi asiatici emergenti, in particolare della Cina. Questo paese è spesso visto come un pericolo in quanto produce beni di largo consumo a basso costo, facendo concorrenza all’industria italiana; attualmente questo non è vero in quanto la nostra industria tende a coprire un settore di qualità più elevata.

Tuttavia, se gli attuali rapporti di investimento rimarranno costanti nei prossimi anni, possiamo tranquillamente prevedere un sorpasso da parte della Cina anche nei settori tecnologicamente avanzati, lasciando ben poco spazio anche alle attività industriali di punta. Né ha senso argomentare che bisogna ridurre queste spese a causa della crisi economica. Al contrario proprio la crisi richiede un maggior intervento dello Stato, ed è ben noto che gli investimenti in ricerca e sviluppo sono i più efficaci. Non solo il governo si muove nella direzione sbagliata, ma quello che è peggio, effettua tagli indiscriminati, indipendentemente dalle reali necessità degli enti di ricerca e delle università.

Tagliare tutto un comparto con una stessa proporzione per ciascuna delle sue componenti è il contrario di governare, è irresponsabile incapacità di fare delle scelte. Questo comportamento dei nostri governanti mi ricorda in maniera irresistibile quello stigmatizzato da un personaggio del fumetto Dilbert su Linus: «Un taglio del 10% del budget di un progetto, è la classica percentuale che si spara anche senza aver pensato ai termini del problema, partendo dall’assunzione che tutto può essere tagliato del 10% senza peggiorare il risultato finale». In realtà invece questi tagli indiscriminati peggiorano gravemente la situazione in quanto impediscono alle nuove generazioni di rimpiazzare coloro che andranno in pensione per i prossimi anni, provocando una perdita netta per il paese e un danno ingiusto nei confronti dei giovani ricercatori. Non mi preoccupo per i pochi «fuori classe», i ricercatori di bravura eccezionale: un posto lo trovano sempre, e riusciranno a fare carriera anche in Italia, a meno che non decidano di accettare le offerte più invoglianti di prestigiose istituzioni estere.

Mi preoccupano le migliaia di studiosi decisamente migliori della media, che speravano di trovare una sistemazione in Italia degna del loro valore. Ma il governo ha distrutto il giorno della loro assunzione, e se vorranno continuare a fare il loro mestiere, dovranno per forza emigrare. Questi provvedimenti quindi, oltre a essere antieconomici, sono chiaramente in contrasto con il dettato della nostra bella Costituzione, che affronta ripetuta1mente il tema della ricerca scientifica. Tutti conoscono l’articolo 33: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»: la scienza è accostata all’arte e ne viene proclamata la libertà. Meno noto è forse l’articolo 9, che appartiene al primo blocco di 13 articoli, che elencano i principi fondamentali. Quest’articolo afferma che «la Repubblica promuove lo sviluppo del1la cultura e la ricerca scientifica e tecnica». La ricerca scientifica è vista qui come un bene primario, da perseguire per il suo interesse culturale, e non per le sue ricadute economiche; anzi, tra i principi fondamentali non è detto che la Repubblica ha il compito di promuovere lo sviluppo economico. Per finire vorrei ricordare l’articolo 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che con1corra al progresso materiale o spirituale della società».

Lo Stato ha quindi il dovere di permettere ai cittadini dotati di talento per la ricerca di svolgere quest’attività in base alle loro capacità. Io sono fermamente convinto che la reale democrazia di un sistema politico si misura in base alle opportunità concrete che esso è in grado di offrire ai suoi cittadini, e alla possibilità che a ciascuno sia consentito di confrontarsi con tali opportunità. Bisogna assoluta1mente evitare che nelle carriere accademiche e di ricerca ci siano generazioni fortemente svantaggiate a causa di scelte arbitrarie. Con i provvedimenti della legge 133 i giovani talenti nati trenta-quaranta anni fa hanno sbarrata la possibilità d’accesso alla ricerca e alla carriera universitaria, benché siano capacissimi di dare 126 importanti contributi innovativi. In questo modo si lede in modo insanabile il principio di eguaglianza e il diritto che tutti i giovani devono avere, a prescindere dalla loro fortuita data di nascita, di realizzare le loro scelte, se queste sono commensurabili alle loro capacità. Assumere nuovi ricercatori in base al merito, mediante giusti concorsi, utilizzando con la massima urgenza le risorse a disposizione e trovandone di nuove, è una necessità vitale per garantire il futuro del nostro paese in un mondo che deve affrontare gravi emergenze planetarie, ma è anche un obbligo costituzionale, se vogliamo che la nostra Legge fondamentale non rimanga lettera morta.

Il direttore della Scuola Normale Superiore, Salvatore Settis, scriveva recentemente che un paese che costringe i suoi giovani talenti a emigrare distrugge il proprio futuro. Gli studenti hanno capito molto bene che questa è la posta in gioco e sono scesi in piazza, hanno occupato le università, hanno organizzato lezioni nelle pubbliche piazze. Difendono il loro futuro, e i docenti non possono che essere con loro.

(28 ottobre 2008)