Miriam Mafai nasce il 2 febbraio 1926 da una coppia di noti artisti italiani, il pittore Mario Mafai e la pittrice e scultrice Antonietta Raphaël. Educata all’antifascismo e alla libertà - anche di culto - sin da bambina (sono nata “sotto il segno felice del disordine” dirà nella sua biografia) con l’introduzione delle leggi razziali, nel 1938, è costretta a lasciare la scuola.

Partigiana e iscritta al Partito comunista, nei primi anni Cinquanta è assessora al comune di Pescara, dove si occupa di gestire gli aiuti per sfollati e indigenti.

Nel 1956, dopo i fatti di Ungheria, si allontana dal Partito dimettendosi dal suo ruolo di funzionaria. Il Partito era come una famiglia, dirà, nella quale però “un’improvvisa indiscrezione o un inspiegabile silenzio facevano intravvedere l’esistenza di un segreto, di una macchia, forse di un peccato”.

Miriam, giornalista

Intraprende quindi la carriera giornalistica, scrivendo per Vie nuovel’UnitàNoi donne (della quale è direttrice), Paese seraRepubblica.

A partire dagli anni Ottanta, al giornalismo affianca la scrittura di opere di saggistica. Tra le sue varie pubblicazioni sono senza dubbio alcuno da ricordare Pane Nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale (1987), Botteghe Oscure addio. Com’eravamo comunisti (Premio Cimitile nel 1996), Diario italiano, raccolta degli editoriali pubblicati su Repubblica a partire dal 1976 (magnifici i suoi ritratti dei leader politici: da Berlinguer a Craxi, fino a Veltroni, Berlusconi, D’Alema).

I temi e l'impegno

Nella sua lunga carriera parlerà di divorzio, aborto, laicità dello Stato, legge sulla fecondazione assistita e condizione femminile, politica e diritti dei lavoratori.

“Alle giovani - diceva in occasione del suo ottantesimo compleanno - dico sempre di non abbassare la guardia, non si sa mai. Le conquiste delle donne sono ancora troppo recenti”.

“Miriam - scriveva di lei Luciana Castellina - faceva parte di quel gruppo di donne che per via di qualche anno in più quando la mia generazione si iscrisse al Pci, alla fine del ’47, erano già 'grandi'. Grandi non solo di età, ma perché erano già grandi figure nel partito, che avevano già grandi responsabilità e facevano grandi cose ed erano perciò per noi l’esempio di quanto avremmo dovuto fare anche noi, di come avremmo dovuto diventare”.

In un volume apparso nel 1986, la giornalista descriveva così le caratteristiche necessarie al suo mestiere: “Una grande curiosità per le persone e i fatti, l’attitudine a cogliere subito gli elementi essenziali di una situazione e insieme tutti i suoi particolari, la rapidità di apprendimento, di comprensione e di giudizio, una notevole sicurezza di sé, la capacità di ispirare fiducia e stabilire legami”.

Una descrizione che è anche un autoritratto.

Non è forse un caso, forse, che il suo ultimo articolo (Così salvammo quei bambini, La Repubblica, aprile 2012) sia stato dedicato al ricordo del salvataggio dei bambini di Roma e Cassino, nel pieno della crisi che sconvolgeva un Paese allo sbando nell’immediato dopoguerra.

Sua è anche, sul tema, la prefazione al libro - bellissimo - di Giovanni Rinaldi I treni della felicità (Ediesse 2009).

"La risposta fu al di là di ogni legittima speranza - vi si legge - Tanto generosa che si decise di estenderla e radicarla nel Mezzogiorno (…) Furono trasferiti così, nei due inverni immediatamente successivi alla fine del conflitto, alcune decine di migliaia di bambini che lasciarono le loro famiglie per essere ospitati da altrettante famiglie contadine, nei paesi del reggiano, del modenese, del bolognese. Lì vennero rivestiti, mandati a scuola, curati”.

“Ci sono interi pezzi della storia d’Italia - diceva la giornalista - che gli italiani non conoscono, e sono i pezzi migliori, della solidarietà, dell’amicizia, del sacrificio e li abbiamo buttati nel dimenticatoio. Senza quella Storia noi non avremmo l’Italia”.      

Una storia che mai come oggi è opportuno conoscere, e ricordare.