Cassius Clay, noto come Muhammad Ali dopo la sua conversione all’Islam nel 1964, è stato uno dei pugili più devastanti di tutti i tempi, diventando una figura di culto e protagonista di diverse battaglie a sfondo sociale.

Quella che ha fatto più rumore in assoluto avvenne probabilmente il 28 aprile 1967, quando l’allora campione del mondo dei pesi massimi rifiutò ufficialmente di unirsi all’esercito statunitense e di combattere nella guerra del Vietnam.

La mia coscienza - dirà - non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato 'negro', non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera.

Il rifiuto di andare in Vietnam costerà ad Ali il titolo dei pesi massimi che gli sarà revocato nel 1967 assieme alla licenza di combattere sul ring. Sarà processato e condannato a cinque anni di carcere (che non scontò). Solo anni dopo la Suprema corte ribalterà la sentenza riconoscendo il suo diritto all’obiezione di coscienza, l’arbitrarietà e l’irragionevolezza della sua sospensione. 

Si dice che Muhammad Ali sia stato autore della poesia più breve di sempre.  “Me, we”, diceva. Due sole parole separate - o forse più propriamente unite - da una virgola: “Me, noi”.  Storicamente non è possibile dimostrare se realmente scrisse lui quei versi, se li pronunciò - come si dice - di fronte agli studenti di un campus americano (secondo alcuni Ali rivelò in un secondo tempo che le parole sussurrate da lui in quell’occasione furono "Me, Whee!", come dire "Io? Evviva"), se quella sia realmente la poesia più breve di sempre. 

Quel che è e rimane certo è Cassius Clay - Muhammad Ali non fu solo un grande pugile. Fu soprattutto un grande uomo, paladino dei diritti umani, che difenderà sempre. Coraggioso, idealista e sognatore ma anche provocatorio, sfacciato, un po’ spaccone e arrogante, diventerà un simbolo per il movimento di liberazione dei neri negli Stati Uniti.

Era già un campione, diventò un mito. Si spegnerà all’età di 74 anni e le ultime foto lo ritrarranno come un uomo pesantemente colpito dal parkinson. “Quel morbo maledetto - scriveva Luigi Panella - irriso già ad Atlanta nel 1996, quando accese la torcia olimpica. Non combatteva da 15 anni, ma forse quella sera fu il round più bello della vita: Parkinson messo alle corde da quel coraggio di mostrarsi malato, dalla fragilità avvolta in un commovente tremolio per un uomo che aveva avuto il mondo in pugno”.