L’anniversario della scomparsa di Giuseppe Di Vittorio, morto a Lecco il 3 novembre del 1957 all’età di 65 anni, cade a pochi giorni dall’assalto fascista alla sede della Cgil. Un episodio gravissimo e insopportabile, che ferisce non solo il sindacato ma tutta la Repubblica fondata sul lavoro e quella convivenza democratica costruita sui valori dell’antifascismo e della Resistenza.

I tempi sono molto diversi, fortunatamente non esistono le condizioni che nel 1922 permisero al fascismo di andare al potere: ma certo, nel giorno in cui ricordiamo il grande segretario generale della Cgil, è difficile non tornare con il pensiero a quei lontani avvenimenti del 1921-22, quando le Camere del Lavoro vennero assaltate dalle squadre fasciste e distrutte militarmente. Quando l’attacco al mondo del lavoro fu la precondizione per la conquista e l'annientamento dello Stato liberale, con la complicità di classi dirigenti troppo ossessionate dalla repressione delle richieste di emancipazione del mondo proletario e contadino per accorgersi dei demoni che stavano evocando e presto non avrebbero più controllato.

Proprio Giuseppe Di Vittorio fu in prima linea in quella battaglia: nel 1922 difese, con successo, la Camera del lavoro di Bari di cui era segretario, dall’assalto fascista. Unica Camera del Lavoro, insieme a quella di Parma, protagonista insieme a un vasto movimento cittadino degli scontri dell’Oltretorrente, a fermare la marea nera che avrebbe travolto istituzioni e regole liberali consegnando l’Italia a vent'anni di feroce dittatura e a una guerra mondiale devastante.

Oggi il fascismo storico non è più all’ordine del giorno: questo non significa non riconoscere nella rinnovata violenza di neofascisti, nel discorso pubblico innervato sempre di più di contenuti razzisti e xenofobi, nella pratica politica di chi nega diritti democratici in nome di una vuota retorica conservatrice, l’emergere di quello che Umberto Eco chiamava "Ur-fascismo". Il riaffiorare di un antimodernismo insofferente al discorso critico, un’esaltazione dell’azione e del gesto anche come simbolo fine a se stesso, l’odio per la diversità sulla quale scaricare la frustrazione individuale e sociale, il rinchiudersi in comunità nazionali chiuse, insofferenti, razziste. Insomma un “populismo qualitativo” insofferente di qualsiasi forma di cultura e anti-intellettualista, che nega le ragioni della scienza e della competenza in nome di pregiudizi alimentati da ignoranza e rancore.

Tutto quello contro cui Giuseppe Di Vittorio spese la sua vita di politico, di antifascista e di sindacalista. Lui che della necessità della cultura come condizione indispensabile per l’emancipazione dei lavoratori aveva fatto, da autodidatta, un punto irrinunciabile della lotta politica; lui che il fascismo lo aveva combattuto personalmente, lo aveva poi subito con il carcere e l’esilio e infine lo aveva sconfitto contribuendo a costruire, nell’Assemblea costituente, la nuova Italia democratica.

Giuseppe Di Vittorio, il bracciante povero e autodidatta assurto alla carica più importante del sindacalismo italiano, capace di uno spessore umano, di un’empatia con le masse costante e ricambiata, di un pensiero politico e sindacale originale e insofferente di qualsivoglia ortodossia. Protagonista di un percorso politico che dal sindacalismo rivoluzionario lo vide approdare al Partito Comunista nel 1924, passando per brevi suggestioni interventiste e un più consistente “socialismo tricolore”: divenne un protagonista amato e rispettato della storia del Paese e un mito per quei lavoratori, che in lui riconoscevano l’affrancamento "da un'infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle continue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un'esistenza ridotta ai puro pratico, e spesso solo all'animale, dalla corruzione dei quartieri dove vivono" (Pier Paolo Pasolini).

Il mito di Giuseppe Di Vittorio ha svolto da subito una funzione identitaria per la Cgil: è stato un modo importante di interpretare il sindacato attraverso un simbolo in grado di trasmettere il senso, la giustezza e la nobiltà dell’agire sindacale. Ma Giuseppe Di Vittorio è stato molto di più della figura dell’eroe popolare: soprattutto un maestro politico, come disse Vittorio Foa, e un grandissimo sindacalista Non a caso tutti i segretari della Cgil che si sono succeduti dopo di lui, da Novella a Lama, da Pizzinato a Trentin lo hanno ricordato come l’unico vero punto di riferimento.

Giuseppe Di Vittorio che fu i primo a ricordare ai lavoratori tutti che la Repubblica non era più lo Stato liberale: era la democrazia fondata sul lavoro nella quale, per la prima volta nella storia d’Italia, i lavoratori erano diventati cittadini. Era dunque lo Stato anche dei lavoratori, e qualsiasi tentativo di rimetterne in discussione principi e valori li avrebbe trovati compatti a difendere e presidiare i luoghi della democrazia. Come successe nel 1960, e di nuovo durante la drammatica stagione del terrorismo nero e quello rosso negli anni Settanta, e come hanno dimostrato le innumerevoli testimonianze di vicinanza alla Cgil pochi giorni fa. E la grande manifestazione di Cgil, Cisl e Uil di sabato 16 ottobre, che ha rappresentato un grande Paese democratico che reagisce alla violenza di un pensiero e di un’azione politica che la storia ha già condannato senza appello.