Dopo la morte di Napoleone Stendhal disse che occorreva prepararsi per i successivi 50 anni a ricordare ogni volta un Napoleone diverso. In effetti, persino in Francia ogni ricorrenza che lo riguardi suscita polemiche, distinguo, quasi che ogni volta – nel bene o male – emerga un personaggio differente: riformatore, centralizzatore, maschilista, rivoluzionario, restauratore e così via. A 200 anni dalla sua fine a Sant’Elena e in una situazione di debolezza delle democrazie liberali, è interessante ragionare su un aspetto particolare del suo lascito, quello del Bonapartismo: e cioè sull’idea che si possa governare solo se si è liberi da troppi regole e impacci, riducendo le mediazioni della politica considerata parolaia e perditempo e cercando una sorta di rapporto diretto con il popolo. Di questa suggestione abbiamo discusso con Marco Meriggi, che insegna Storia delle istituzioni politiche all’Università Federico II di Napoli. “Il tema è interessante – risponde lo studioso –. Successivamente alla Rivoluzione francese, siamo abituati a considerare l'Ottocento e il Novecento come secoli di sviluppo pieno della democrazia. Ma la questione è ben più complessa”.

In che senso?

Nel senso che, dopo la rivoluzione francese, parallelo a questo corre un filo che è populista e non democratico; un filo che vede il potere come qualcosa che non è più in mano ai gruppi di aristocratici e privilegiati dell’antico regime, che ammicca con forza alla sovranità popolare ma che, al tempo stesso, organizza di fatto le politiche in maniera tale che sia un legame di tipo carismatico a rendere reale e non fittizia la partecipazione del popolo all’esercizio della sovranità. Napoleone è il grande inventore di questa formula, anche perché non viene dal mondo delle vecchie dinastie: è un uomo comune che diventa capo dello Stato all’interno di una società che dal punto di vista giuridico è egualitaria. Con un’idea però più volte da lui ripetuta: e cioè che l’esercizio della democrazia porta dispersione, confusione, mancanza di efficacia perché il troppo parlare paralizza il momento decisionale; per questo è necessaria una figura che interpreti, da leader carismatico, quello che è il sentimento comune della nazione. La storia d’Europa dimostra che ci sono alternanze tra fasi democratiche e fasi in cui prevale un modello cesaristico di cui Napoleone è stato il primo esempio; tutti i modelli di tipo autoritario o dittatoriale che si sono susseguiti si fondano su queste idee.

Per restare alla storia attuale vengono in mente i modelli autoritari e carismatici di Putin ed Erdogan...

Certamente, ma direi in generale che tutti i discorsi che insistono su sovranismo e populismo vanno a pescare in questo bacino di riferimento: la politica considerata come affare di mestatori, imbroglioni e intriganti. Napoleone appartiene alla sua epoca e la cambia. Ha alle spalle la rivoluzione francese, ma con lui la rivoluzione finisce; finisce il momento assembleare e la partecipazione democratica; si rimane ancorati a un modello sostanzialmente egualitario di organizzazione della società dal punto di vista giuridico, ma questo modello egualitario non è democratico dal punto di vista della struttura di potere. Certo la società è ormai mobile, non più bloccata, ma senza che questo produca una reale partecipazione democratica. Il punto di forza diventa il merito individuale, non più la nascita e ereditarietà: nel cesarismo anche il signor “nessuno” può diventare “qualcuno”. La politica resto però una turbativa – scontro e conflitto di interessi – mentre una nazione dovrebbe essere tendenzialmente omogenea nelle sue aspirazioni ed esprimere una volontà comune e per questo è necessario che ci sia un unico interprete di questa volontà comune. 

Forse anche la tecnocrazia, l’idea che il tecnico competente possa sciogliere i “lacci” paralizzanti della politica rientra in questo ragionamento...

Direi di sì. E Napoleone, per gli strumenti che utilizzava, era sicuramente un tecnocrate; il tecnico diventa un’altra figura tipica di interprete del bene della nazione, non più su basi dinastiche ma di tipo decisionistico. Il tecnico è come il dottore per un corpo malato: è l’unico in grado di guarirlo e quindi non bisogna contraddirlo perché solo lui è il depositario della cura.

Napoleone e l’Europa: nel Memoriale di Sant’Elena il sogno degli Stati Uniti d’Europa viene proclamato a gran forza. Si legge: bisogna creare “una grande famiglia europea, una federazione come quella degli Stati Uniti o un’anfizionia, come nell’antica Grecia”. Napoleone sognava un’Europa con le stesse monete, pesi, misure, la medesima legislazione ovunque. Napoleone può essere considerato un antesignano – con la sua opera su leggi e codici omogenei – di un’idea di Europa unita, magari anche con i limiti che oggi vediamo?

Non è solo un sogno: negli anni in cui ha dominato Napoleone nei fatti questa Europa l’ha realizzata. In un territorio vasto che comprendeva Francia, Spagna, Italia e parti consistenti dell’area tedesca – con anche qualche appendice nell’Europa orientale –  vigevano le stesse leggi e gli stessi princìpi. È la prima volta che in Europa si riscontra un tasso di somiglianza così forte tra paesi diversi per lingua, cultura e tradizioni. Un'unificazione basata sul presupposto dell’affermazione dei diritti civili come punto di riferimento; qualcosa di diverso rispetto ai diritti politici, ma che comunque rappresentavano una serie di garanzie primarie per cittadini. Un’Europa del diritto, in sostanza.

Con la solita contraddizione, però, che il potere era di natura dittatoriale.

Senza dubbio. Tuttavia nel corpo delle leggi attraverso cui questo potere viene esercitato riconosciamo i principi della civiltà giuridica moderna: il cittadino come soggetto di diritti civili nel suoi rapporti con gli altri e anche nelle garanzie di cui fruisce di non venir abusato dal potere. Lo stato di diritto, anche quando esercitato in maniera autoritaria, obbliga coloro i quali sono detentori delle leve del potere a rispettare le leggi esistenti. Nell’antico regime, al contrario, l'esercizio del potere poteva espandersi in maniera del tutto arbitraria. Nonostante l’ambivalenza che abbiamo osservato, io credo che quando si discute delle radici dell’Europa, tra queste debbano esserci anche quelle napoleoniche, che contemplano l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Sempre, ovviamente, con la solita ambiguità, per cui questa libertà, questi diritti, possono essere tacitati quando emergono esigenze ritenute di volta in volta di forza maggiore.

E non bisogna neanche dimenticare che la sua era un’Europa francese...

Certamente si fondava sull’esportazione e l’imposizione sui paesi conquistati e dominati di tutto quello che era stato costruito in Francia dalla fine del 700. Resta il fatto che Napoleone secondo me debba essere annoverato tra le figure ideali di riferimento dell’unità europea per come la conosciamo oggi: andare al di là di un orizzonte puramente nazionale per costruire un sistema di patrimoni condivisi.

E l’Italia? Anche in questo caso l’operato di Napoleone è stato giudicato variamente: suscitatore di spirito nazionale – tanto che alcuni fanno risalire l’inizio del nostro Risorgimento addirittura al 1796 –, modernizzatore nell’organizzazione dello Stato e però insieme spietato restauratore e asservitore dell’Italia agli interessi della Francia. Cosa ne pensa? Anche qui la nota ambivalenza?

Cominciamo con il dire che l’azione di Napoleone ha prodotto in Italia un primo cambiamento significativo. Della dozzina circa di Stati che formavano la penisola prima del ‘96 si arriva a uno schema a tre. A parte le isole – in Sardegna scappano i Savoia  e in Sicilia i Borbone – Milano e Napoli come capitali di regni che hanno sostanzialmente le stesse leggi e poi un terzo blocco che viene annesso all'impero francese e che ha comunque anch’esso le stesse leggi. In età napoleonica si affermano valori importanti per il futuro, come la necessità di un esercito nazionale come garante dell'indipendenza di un territorio, la possibilità di carriere aperta ai talenti, con la formazione di una comunità politica in cui il merito conta più della nascita. Insomma, se è vero che anche prima di Napoleone l’Italia esisteva non solo nella testa di pochi intellettuali e che gli italiani sentivano di essere italiani, tuttavia da questo sentimento diffuso si passa alla costruzione di comunità politiche concrete proprio con Napoleone. Quindi: l’Italia moderna nasce con l’età napoleonica, anche se sicuramente lui non ne è il massimo interprete, visto che poi, a partire da una certa epoca, prevale una politica di potenza per cui l’Italia, come gli altri paesi dominati dalla Francia, sono di fatto satelliti, compresi i due regni d’Italia e di Napoli che pure formalmente sono indipendenti. La politica di potenza fa insomma aggio su qualsiasi logica di rispetto della nazionalità degli altri.