I grandi sommovimenti si riverberano con forza nella lingua producendo novità in alcuni casi destinate a rimanere e a entrare persino nei vocabolari. Non poteva fare eccezione, in questo senso, la pandemia che si è scatenata nel mondo proprio un anno fa e che ha in alcuni casi “inventato” parole nuove o, più frequentemente, contribuito a mutare il significato di altre già in uso. In ogni caso non c’è forse punto di osservazione migliore di quello linguistico per cogliere – da una prospettiva tanto più efficace in quanto laterale – quell’alternarsi, via via, di paura, speranza, dolore e sollievo che si è snodato in questi lunghissimi 12 mesi. A spiegarci le caratteristiche di questo “covidizionario” abbiamo invitato Giuseppe Antonelli, docente di Storia della lingua italiana all'Università di Pavia, studioso raffinato e instancabile divulgatore dei segreti del nostro idioma. "È un 'covidizionario' che si è creato via via, stratificandosi nel tempo – spiega il linguista –. Se guardiamo all’anno appena trascorso, il primo anno vissuto nella pandemia, colpisce il fatto che alcune parole siano entrate a poco a poco nel nostro uso e nel nostro immaginario, finendo col caratterizzare le diverse fasi che abbiamo attraversato finora. Non sempre parole nuove, ma comunque parole-simbolo di questa drammatica esperienza: parole tipiche di determinate situazioni".

Quali sono secondo te queste fasi?

Per quella che potremmo definire fase 0, tra gennaio e febbraio, individuerei almeno contagio, diffusore, influenza, infodemia, spillover. Per la fase 1, da marzo a maggio: Covid-19, Coronavirus, distanziamento, droplet, lockdown. Poi, tra giugno e settembre (fase 2): assembramento, congiunti, mascherina, quarantenare, tamponare. Infine per la fase 3, che speriamo sia finalmente lì lì per concludersi: bolla, coprifuoco, ristoro, tracciamento, vaccino. Senza tener conto del semaforo di colori abbinati alle regioni che con le sue periodiche modifiche continua a condizionare le nostre vite.

Ci sono anche i cosiddetti neologismi semantici, cioè parole non nuove del tutto ma che hanno mutato significato in particolari accezioni. Anche in questo caso ci puoi fare qualche esempio?

In molti casi, in effetti, si tratta di “neologismi di frequenza”: parole preesistenti che hanno conosciuto una nuova, improvvisa fortuna. Qualcosa di simile vale per casi come sanificare e sanificato, sempre più usati al posto di disinfettare e disinfettato; o per l’inversione di polarità – normale da tempo in ambito medico – tra positivo e negativo in rapporto a un test. Molti sono – è vero – i “neologismi semantici”, parole che in questi mesi hanno acquisito nuovi significati. Basta pensare al modo in cui vengono oggi impiegati tamponare e tamponato, o alla fortuna delle nuove accezioni di contenimento o confinamento (proposto dall’Accademia della Crusca per sostituire lockdown) e anche dei già visti diffusore o mascherina. Ci sono poi molte nuove specifiche espressioni fatte di diversi elementi già noti, come isolamento fiduciario, immunità di gregge o paziente zero.

Quanti lemmi di questo covidizionario sono entrati o entreranno nei dizionari che, come sappiamo, devono accogliere sì le novità della lingua, ma senza dare spazio a mutamenti effimeri?

Il primo riscontro lo possiamo già fare sul Devoto-Oli 2021, che ha fatto in tempo a inserire nel lemmario anche alcune parole legate alla pandemia. Innanzi tutto ci sono i nomi del Covid-19 e del Coronavirus accanto a neologismi diffusi fin dai primi mesi come superdiffusore o infodemia, che in realtà è stato creato in inglese (infodemics) dal politologo David J. Rothkopf nel 2003, all’epoca della prima Sars. Alcune, in effetti, sono proprio parole inglesi: contact tracing, corona-bond, droplet, lockdown, social distancing, spillover. Altre sono parole italiane che entrano per la prima volta nel dizionario, anche se non sono del tutto nuove: così è per autoquarantena, documentata già dal 1983, o per le stesse quarantenare e quarantenato, attestate fin dal lontano 1855. Non mancano – poi – le sigle, come la famigerata Dad, “Didattica a distanza”.

Visto che la nostra vita è sempre più regolata da decreti e disposizioni anche molto stringenti, secondo te si può parlare di una certa rivitalizzazione del vecchio linguaggio burocratico?

Forse anche per la storia e la vocazione del Presidente del consiglio Giuseppe Conte, alcune parole chiave di questa emergenza sono state scelte dal governo facendo ricorso a un lessico di provenienza giuridico-burocratica. È il caso di assembramento, che in origine si riferiva a un’adunanza militare, poi è passata a indicare genericamente un radunarsi o affollarsi di persone in un luogo all’aperto; mantenendo però una certa accezione ostile. Non sarà un caso che gli esempi più frequenti fatti dai dizionari riguardino il “proibire” o lo “sciogliere un assembramento”, come quello “di curiosi, di teppisti, di tifosi”. Il significato giuridico di assembramento, d’altra parte, è quello di un raduno che si tiene – riporta il Grande Dizionario della Lingua Italiana – “contro il divieto dell’autorità di Pubblica Sicurezza”. Ma la prevalenza del lessico burocratico è stata evidente anche nel caso dei congiunti, parola dalla cui interpretazione è dipesa – per un certo periodo – la possibilità di tornare a incontrare le persone più care. E dopo i congiunti sarebbe stata la volta degli affetti stabili, delle rime buccali, della segnaletica di movimento, dei ristori che – per un curioso cortocircuito linguistico – vedono tra i beneficiari anche i ristoratori.

Mi colpisce, ma non so se la percezione è esatta, che gli anglismi entrati nell’uso in corso di pandemia siano relativamente pochi…

In effetti, tranne lockdown (parola dell’anno 2020 secondo il dizionario della lingua inglese Collins) che ci dobbiamo rassegnare a considerare di fatto intraducibile, molte altre parole inglesi sono state presto affiancate o sostituite da equivalenti italiani. Penso a casi come contact tracing/tracciamento, droplet/gocciolina, spillover/salto di specie, social distancing/distanziamento sociale (anche se sarebbe meglio definire quel distanziamento come “fisico” o “interpersonale”, o – meglio ancora – ricorrere all’espressione “distanza di sicurezza”). Abbiamo adattato all’italiano anche neologismi scherzosi di provenienza inglese, come quel covidiot che è subito diventato l’italianissimo covidiota.

Colpisce molto anche l’uso da parte dei media di metafore molto forti: guerra, resistenza, trincea. Secondo te prevalgono gli stilemi “negativi” o quelli che mettono enfasi su aspetti di risposta positiva alla pandemia, cioè la solidarietà, la consapevolezza, la responsabilità? Ci puoi fare qualche esempio?

Il primo impatto con la nuova, spaventosa, epidemia è stato raccontato nei media italiani come una peste coi suoi untori e lazzaretti, un terremoto col suo epicentro in Cina o a Codogno, una catastrofe, un’apocalisse. Poi in tutto l’Occidente si è diffusa e sembra tuttora prevalere la metafora della guerra, cavalcata più o meno esplicitamente dai diversi governi. Una guerra contro un nemico invisibile, combattuta nella trincea degli ospedali da medici e infermieri eroi; una guerra coi suoi martiri e le sue tregue. Un afflato anche patriottico. C’è stato un momento, in effetti, in cui gli italiani e le italiane hanno preso a esporre il tricolore e a condividere dalle loro case il bisogno di vicinanza: applaudivano, cantavano, suonavano, si scambiavano saluti e sorrisi dalle finestre, dai balconi. È stato il momento emotivamente più forte. Quello che allora sentivamo di vivere – però – più che una guerra era una forma condivisa di resistenza (tra quelle canzoni non a caso c’era anche Bella ciao). Non si trattava, certo, di prendere le armi: ma di assumere nei propri comportamenti una responsabilità che riguardava il bene di tutti. L’orizzonte ideale era quello che il filosofo Aldo Masullo, scomparso proprio in quei giorni a 97 anni, aveva chiamato – meravigliosamente – pan-patia.