Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, un estratto da Anna Frisone, Femminismo al lavoro. Come le donne hanno cambiato il sindacato in Italia e in Francia (1968-1983), Viella 2020.

Il rapporto tra lavoro femminile e rappresentanza sindacale ha avuto un andamento complesso e discontinuo nel corso dell’intera storia delle organizzazioni dei lavoratori. Nel “tempo lungo”, infatti, si è passati da dinamiche di ostracismo (che caratterizzarono in particolare alcune formazioni di rilievo come il sindacato francese dei tipografi), ad altre di tipo concorrenziale tra sindacati esclusivamente maschili ed altri femminili (ad esempio nel settore tessile), fino a logiche di tutela differenziata.

Sin dai propri albori, alla metà del XIX secolo, i sindacati maturarono varie forme di attenzione alla questione femminile: ancora fino alla prima metà del Novecento, il loro approccio in materia si era attestato su principi di protezione (come per il caso delle lavoratrici madri o la riflessione sul lavoro notturno) o nel migliore dei casi sulla rivendicazione di una parità formale di diritti. Questo orientamento è stato definito, specie in Italia, “emancipazionista”, ossia rivolto alla ricerca di un’emancipazione femminile da realizzarsi attraverso una sostanziale accettazione delle “regole del gioco” imposte dal sistema.

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La nuova ondata femminista degli anni Sessanta e Settanta del Novecento ribaltò invece completamente questa logica, denunciando la timidezza ed in fondo la vacuità del concetto stesso di emancipazione: ad esso venne contrapposta la “liberazione” femminile che incoraggia il rifiuto delle regole dettate dal sistema patriarcale dominante. Per le nuove generazioni di femministe che si affacciavano sulla scena pubblica all’indomani delle lotte per i diritti civili (negli Usa) e delle lotte studentesche del Sessantotto, la rivendicazione di diritti formali non era più sufficiente: bisognava invece rivoluzionare alla base i rapporti di potere nella società, a partire dal vissuto personale.

In particolare, le riflessioni sul corpo e sulla sessualità segneranno profondamente il movimento femminista di questi anni, imprimendo una svolta che andrà a toccare diversi ambiti dell’elaborazione politica femminile. Anche all’interno delle organizzazioni dei lavoratori le sindacaliste mutarono dunque la propria prospettiva analitica, mettendo in discussione non soltanto i temi “classici” del lavoro, ma sollevando anche questioni nuove legate ai rapporti di genere tanto nel contesto sociale quanto nel sindacato stesso. Problematiche sino ad allora relegate alla sfera privata – come salute riproduttiva, sessualità, contraccezione, aborto – non potevano pertanto non assurgere a temi centrali del nuovo discorso.

Gli anni Settanta, sia in Italia che in Francia, videro i sindacati affermarsi come importanti attori politici, pronti al confronto con il movimento studentesco e capaci di rispondere a nuove richieste di rappresentanza. Già a partire dal decennio precedente i sindacati dei due paesi erano infatti passati attraverso una fase di importanti riforme che ne avevano ampliato gli spazi interni della democrazia e avevano così aperto le organizzazioni dei lavoratori alle rivendicazioni provenienti da nuovi soggetti collettivi (ad esempio, gli operai non specializzati e i lavoratori immigrati dalle zone rurali). In Italia l’avvento dei Consigli di Fabbrica, che a partire dal 1969 si sostituirono progressivamente alle “burocratiche” Commissioni Interne, portò ad un notevole ricambio generazionale, basato sul sistema di rappresentanza del “gruppo omogeneo”. L’idea principale di queste riforme era che la rappresentanza dei lavoratori dovesse fondarsi sulla comune esperienza di lavoro. La distanza tra i lavoratori e i loro delegati doveva essere ridotta così come doveva essere ridotta quella tra “colletti bianchi” e “tute blu”.

Tuttavia, nonostante gli sforzi di riforma compiuti per cambiare le loro stesse strutture e strategie, i sindacati mostrarono enormi difficoltà, se non riluttanza, a comprendere le ragioni alla base delle critiche femminili. All’interno delle organizzazioni dei lavoratori dominate dagli uomini era infatti diffuso il timore che il riconoscimento della differenza di genere potesse minare l’unità della classe operaia, rendendola vulnerabile agli attacchi della controparte padronale. I quadri sindacali apparvero spesso incapaci di ammettere l’esistenza di un punto di vista differente e fino ad allora marginalizzato che tuttavia era parte integrante della stessa classe operaia.

Nella prima metà degli anni Settanta, in Italia e in Francia, le lavoratrici cominciarono ad incontrarsi, separatamente dai loro colleghi uomini, sentendosi finalmente libere di parlare dei propri bisogni e problemi solitamente ignorati dal sindacato e marginalizzati durante le contrattazioni ufficiali. Nei loro incontri separati le lavoratrici avviarono un’intensa discussione sul legame donne-lavoro provando a proporre una diversa valutazione dei bisogni e degli interessi dei lavoratori, che tenesse conto della loro natura di genere e dell’ineguale allocazione di diritti e doveri nel quadro dell’intera società.

Successivamente, per rafforzare la loro influenza sui meccanismi istituzionali del sindacato, esse costituirono rinnovate strutture, rispettivamente: i coordinamenti donne e le commissions-femmes. L’approccio femminista sviluppato da tali “strutture di movimento” (così denominate dalle stesse protagoniste per dare conto della loro autonomia e informalità) rispetto alle questioni del lavoro ed alla politica sindacale spostò progressivamente l’attenzione su temi come l’orario di lavoro, la formazione professionale, le opportunità di carriera e la salute sui luoghi di lavoro. Le promotrici di coordinamenti e commissions tentarono di coinvolgere quante più lavoratrici possibile, stimolando una nuova consapevolezza così da renderle attive partecipanti in grado di ridefinire le priorità dei sindacati.

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Rispecchiando il dibattito femminista nei collettivi radicali sul rapporto tra donne e istituzioni, venivano avanzati due tipi di domande, mutualmente interdipendenti ma certamente non sovrapponibili: innanzitutto, la domanda per una crescente accessibilità delle carriere sindacali per le donne; in secondo luogo, la richiesta che il contributo femminile nella ridefinizione della politica sindacale fosse considerato un patrimonio condiviso dell’intera organizzazione. Le lavoratrici affermavano la loro differenza ed al tempo stesso rivendicavano un uguale riconoscimento.

Un elemento che esse tentarono di portare all’attenzione del sindacato fu il riconoscimento del doppio lavoro delle donne – in fabbrica e a casa. L’iniqua distribuzione dei carichi familiari induceva le donne ad immaginare modi differenti di approccio ai bisogni dei lavoratori, considerandoli (tutti loro, uomini e donne) come cittadini con interessi legati non soltanto alla vita lavorativa, ma anche alle loro vite al di fuori del posto di lavoro.

Un tema che certamente ebbe grande rilievo nell’attività delle nuove strutture sindacali femminili, coinvolgendole nel vasto dibattito politico e culturale in corso nei rispettivi paesi, fu la depenalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza. In Francia la si realizzò nel 1975 con la Loi Veil; in Italia invece nel 1978 quando fu introdotta la legge n. 194 che tre anni dopo, nel 1981, fu sottoposta a referendum (evento che spinse le donne a mobilitarsi in massa per difenderla). Le protagoniste del femminismo sindacale sostennero queste leggi introducendo fra l’altro nel dibattito in corso un elemento di riflessione drammatico ma cruciale, ossia la denuncia relativa al largo numero di aborti spontanei (cosiddetti “aborti bianchi”) patiti dalle operaie a causa di condizioni di lavoro nocive. Connettere questa denuncia con l’impegno a favore della legalizzazione dell’aborto significava affermare la centralità dell’autodeterminazione della donna, stigmatizzando l’incoerenza delle istituzioni al riguardo.

Il caso italiano si distingue poi in particolare per un’esperienza molto rilevante di impegno delle donne sindacaliste al di là dei confini dell’organizzazione dei lavoratori: esse infatti scelsero di declinare al femminile un’importante conquista sindacale, le 150 ore per il diritto allo studio, aprendola al confronto con il movimento delle donne. Con il rinnovo del contratto nazionale nel 1973, i metalmeccanici avevano ottenuto un monte-ore retribuite (150 distribuite nell’arco di tre anni) che i lavoratori potevano usare per una varietà di offerte formative: dal recupero dell’obbligo scolastico alla frequenza di corsi monografici organizzati presso le scuole superiori e le facoltà universitarie. Dopo che i metalmeccanici ebbero aperto la strada molte altre categorie riuscirono ad ottenere questo diritto e le donne dei coordinamenti si impegnarono nella elaborazione di corsi “tenuti da donne per le donne” nei quali fosse possibile trovare un tempo ed uno spazio separati per affrontare e analizzare i propri bisogni specifici.

Si scelse di aprire questi seminari a donne provenienti da diversi contesti sociali e culturali: oltre alle lavoratrici di industrie ed aziende, anche insegnanti, studentesse e casalinghe. I seminari divennero dunque terreno fertile per creare legami che andavano al di là dell’ambito sindacale, collocandosi nella cornice del movimento delle donne: furono un’esperienza unica, sorta all’intersezione tra l’impegno sindacale, la critica femminista e le riforme tentate in ambito educativo ed accademico a partire dalle lotte studentesche del 1968.

Anna Frisone ha conseguito il dottorato in Storia Contemporanea dell’Istituto Universitario Europeo