Siamo solo a gennaio, ma i danni a lungo termine da Covid 19 si fanno già sentire nel mondo della cultura.  Per i beni culturali c'è qualche spiraglio di luce, ma l'anno si apre con tinte che tendono al chiaroscuro. Il Veneto, per esempio, resta in zona arancione, ma un eventuale passaggio in quella gialla, al momento, non garantirebbe la riapertura dei musei civici a Venezia.

Il sindaco Luigi Brugnaro ne ha, infatti, già decretato la chiusura fino ad aprile. Previsioni pessimistiche sui contagi? No, paura che non ci saranno più turisti. Già la scorsa estate, nonostante le riaperture, diverse istituzioni museali erano rimaste chiuse a livello locale, per il timore che, a causa del distanziamento sociale e del crollo della domanda, le aperture non fossero finanziariamente sostenibili.

Contro la decisione del sindaco Brugnaro, la rivista Ytali ha lanciato la petizione #MuseiAperti, che ha già raggiunto oltre seimila firme, provenienti dalla società civile e dal mondo della cultura. L’appello è stato raccolto dal deputato veneto Nicola Pellicani, che ha presentato un’interrogazione in merito al Ministro per i beni e le attività culturali e il turismo, Dario Franceschini.

Contrari alla chiusura preventiva anche i sindacati, che puntano il dito contro l’uso eccessivo della cassa integrazione da parte della Fondazione Muve. “Per i biglietti non staccati durante il lockdown, la Fondazione ha ricevuto un ristoro di circa 8 milioni" fa notare Daniele Giordano. Il segretario generale della Fp Cgil Veneto spiega che questa cifra, sommata ai risparmi per otre un milione di euro, non può giustificare il ricorso alla cassa integrazione al 100%, chiesto dalla Fondazione. Se non come espediente per guadagnare sulle spalle dei lavoratori: seicentomila euro sono stati “risparmiati” nel 2020 grazie agli amortizzatori sociali e la previsione sarebbe di mantenerne in casa altrettanti, nei primi tre mesi del 2021.

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“La cassa integrazione ha già comportato un abbassamento dello stipendio medio da 1.350 euro netti a 800 euro netti - prosegue Giordano- i lavoratori non vogliono stare a casa pagati con i soldi pubblici e nel 2020 hanno dato la loro disponibilità anche nelle giornate di stop, per portare avanti attività che altrimenti sarebbero andate perse”. Per il sindacato, i musei civici di Venezia non sono soltanto i quadri attaccati alle pareti. Nè tra i visitatori possono essere contati solo i turisti. Tra di essi ci sono, per esempio, i cittadini e gli studenti anche se, come dichiarato dal sindaco, non rappresentano una fonte di guadagno, perché hanno diritto a entrarvi gratuitamente.

Fruire, conservare, salvaguardare sono le tre funzioni riconosciute agli istituti museali dalla Commissione Europea.  E i musei - fa notare la Fp Cgil - sono molto di più che uno spazio espositivo. “Ci sono l’allestimento e la catalogazione, la conservazione, i rapporti con le altre istituzioni internazionali – osserva Giordano – tutte attività che sono andate avanti nonostante la chiusura”. Ad oggi lavora il 15% del personale (in tutto 76 dipendenti), tra amministrazione, appalti e attività finanziate che non si possono del tutto sospendere. A questi, vanno aggiunti i 350 lavoratori impiegati nell’indotto, vittime dell’effetto domino generato dalla chiusura dei musei. Sono quelli delle cooperative che gestiscono servizi come l’apertura, le pulizie, la sorveglianza, i punti ristoro e vendita di souvenir.

“Come sindacato – conclude Giordano - non possiamo che auspicare che l’amministrazione si ravveda rispetto alle scelte che ha fatto e apra un confronto serio per far ripartire la città.  Dobbiamo mettere al centro il nostro straordinario patrimonio artistico e culturale, i lavoratori sono come sempre pronti a fare la loro parte, con la massima responsabilità”.

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