Non c’è stato tema sociale che il suo obiettivo non abbia documentato, indagato, raccontato. Ma Uliano Lucas, milanese, classe ‘42, è stato sopra ogni cosa un attento osservatore e narratore del mondo del lavoro, che fotografa fin dagli anni Settanta. Una ricerca continua che dalle fabbriche si allarga ai quartieri dove i lavoratori vivono con le loro famiglie, entra nelle loro case, fruga gentilmente nella loro storia, componendo il quadro sociale esteso e complesso del mondo produttivo del Paese, di cui gli operai sono la trama fitta e necessaria. Un mondo che ha seguito nella sua evoluzione tecnologica e organizzativa, cogliendo le trasformazioni intervenute negli anni: cambiano le catene produttive, cambiano le persone e il loro rapporto con le macchine e cambia la società, perché il lavoro è un grande specchio che contiene tutto.

Uliano Lucas, che ruolo può avere la fotografia nel racconto del lavoro?

La fotografia è la memoria, restituisce la dimensione storica: ma se guardiamo attentamente le immagini della catena di montaggio della Ford a Detroit o della Fiat a Torino negli anni Sessanta e Settanta, ci accorgiamo che il fotografo compie una costruzione arbitraria, che perpetua un falso. Con il Novecento, che ha significato essenzialmente lavoro, la fabbrica con le sue catene di montaggio è diventata centro di aggregazione e speranze, e poi luogo di alienazione. Un posto inaccessibile, dove fino agli anni Settanta operai e impiegati non avevano libertà, un mondo sconosciuto di cui anche chi ci lavorava dentro aveva poca voglia di parlare, perché era faticoso, ingrato, duro. La documentazione che resta di questo mondo, ormai scomparso, è quella voluta dagli uffici stampa: in quegli anni non tutte le fabbriche erano a misura d’uomo come la Olivetti e la visione interna del nostro capitalismo – fotografica e documentaristica - è stata costruita dalle grandi aziende.

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Lei ci è entrato, però, ed è riuscito a fare un lavoro a lungo termine, ben oltre la documentazione aziendale

La mia scelta di raccontare il mondo del lavoro, che dagli anni Settanta continua ancora adesso, è stata una scelta politica e ha significato essere indipendente. Ho scelto, da freelance, di lavorare intorno ai temi che mi parevano interessanti e collaborare con settimanali importanti mi ha permesso, a un certo punto, di entrare nelle fabbriche e scattare anche immagini per me. Negli anni Settanta, poi, sono stato vicino ai sindacati metalmeccanici, che mi hanno aiutato a entrare anche nelle piccole aziende. La questione è, una volta dentro, non fotografare la banalità dell’operaio in tuta un po’ sporco, ma cercare di capire il processo produttivo e organizzativo di una fabbrica, il ritmo di una grande caserma con meccanismi ben precisi. E poi, dopo, continuare il viaggio, seguire operai e operaie quando escono in bicicletta, o prendono tram e treno per tornare a casa. Ma dove tornano? In un hinterland. E allora devi lavorare su questo luogo: le case popolari, la vita dei lavoratori, i figli, il doppio lavoro, se poi sono del Sud capire l’emigrazione, perché sono arrivati lì.

In alcune grandi aziende è tornato più volte a distanza di anni, come è stato fotografarle di nuovo?

In certi luoghi di lavoro sono tornato più volte per cercare di capire come erano cambiati. La Zanussi di Pordenone, ad esempio: dopo tanti anni la catena era la stessa, ma sono cambiate le persone dentro, questo è il dato fondamentale. Credo di avere il più vasto archivio sul mondo del lavoro, sono entrato in almeno un centinaio di aziende, ho cercato di capire le innovazioni tecnologiche e i percorsi di trasformazione. Sono arrivato alla Fiat quando è cambiato il modello di produzione, ci sono arrivato preparato e ho fatto delle fotografie, per un settimanale inglese, ragionando sul fatto che non c’era più la catena lineare, ma altro. Non era difficile, bastava fare un giro in Europa, alla Renault e alla Volvo avevano modificato tutto da anni, bisognava aspettare che quel cambiamento arrivasse anche il Italia.

Era più difficile con le piccole fabbriche, che avevano sempre lo stesso proprietario, dai cinquanta agli ottanta dipendenti, ed erano disseminate in realtà diverse: se andavi in Abruzzo a fotografare il miracolo del tessile ti trovavi di fronte maestranze che arrivavano dal mondo contadino e dovevi entrare in quello spirito, cercare di capire quel mondo, soprattutto il rapporto che quei lavoratori instauravano con le nuove tecnologie. È stata una grande avventura, una grande storia, solo l’Inghilterra ha avuto fotografi che hanno fatto lo stesso lavoro in profondità, il resto è una fotografia che diventa un inno al lavoro fine a sé stesso.

Il mondo del lavoro e quello della fotografia sono stati entrambi toccati e trasformati dalla tecnologia digitale: in che modo ha influito sul racconto?

Bisogna fare un passo indietro per capirlo. La fotografia da noi è arrivata in ritardo, in un mondo intellettuale che non ne ha capito la modernità. Gli Stati Uniti sono diventati grandi soprattutto per la loro modernità: la fotografia era una normalità, la guerra civile americana dell’Ottocento è stata fotografata da un insieme di bravissimi reporter che hanno lasciato più di ventimila negativi, ora alla biblioteca del Congresso. Il nostro Risorgimento ha duecento immagini. Non abbiamo avuto il grande giornalismo da milioni di copie di Francia e Germania, da noi i giornali che hanno funzionato negli anni Settanta e Ottanta erano fatti da intellettuali che amavano la fotografia, e i fotografi erano per lo più autodidatti: c’erano i Mulas, i Dondero, i Garrubba, e poi gli altri, che lavoravano per agenzie ed erano disposti a tutto per vendere delle fotografie. E le fotografie sul mondo del lavoro non erano vendibili, i giornali italiani non le pubblicavano come avveniva in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti.

La prima storia di una giornata con un operaio nella sua casa, la domenica, è del ’73, su Tempo Illustrato, mentre in America la rivista Life esce nel ’37 con un lunghissimo reportage sulla giornata di un lavoratore. L’operaio non ha mai avuto una rappresentazione nella nostra editoria, è una figura che non c’è: la fabbrica era lontanissima e non appariva sui nostri rotocalchi, che parlavano di Padre Pio, dei reali, delle autostrade, delle maggiorate, ma non di quello che era la realtà. È un problema di committenza e di preparazione culturale: la committenza non c’era allora e non c’è oggi, mentre la preparazione culturale credo che allora fosse più forte, la provenienza della maggior parte dei fotografi era la piccola borghesia, erano affascinati dal mondo della produzione, dalle macchine, dalle lotte e dalle storie.

Quando è arrivato il digitale ha spazzato via tutto, su questo strumento gli editori non sono riusciti a inventare cose nuove, nella loro arretratezza. La nuova generazione si è trovata così senza possibilità: adesso o crei tu delle piattaforme e costruisci delle storie, e per far questo hai bisogno di un’idea economica collettiva, oppure soffochi all’interno di questo sistema dove la fotografia ormai è totalmente deprezzata.

Come tornare a questi temi oggi?

Se allora pochissimi hanno fatto fotografie di quel mondo, oggi c’è una generazione che vede il mondo del lavoro con occhi nuovi ma senza profondità, senza capire esattamente cosa sta accadendo, se non andando a fare due fotografie a quelli che vanno a portare il cibo alla sera: ma lì è facilissimo, immigrati, una bicicletta e chiuso. Ma non entrano dentro, nelle contraddizioni di una società neoliberista che ha bisogno di una massa di gente senza pratica che faccia i lavori più sgradevoli che esistono. Nessuno vuole entrare veramente in questa narrazione e quando lo fanno producono racconti banali, di un cattolicesimo d’accatto. È un mestiere finito se non si abbraccia l’idea di entrare nella rete con la forza di un collettivo, guardando all’economia e allo stesso tempo curando uno sguardo nuovo che possa raccontare. Bisogna andare contro corrente.

Una volta ha detto che per raccontare il fotografo non dovrebbe andare a caccia di medaglie, ma dovrebbe piuttosto scomparire. Quando guardiamo i volti delle persone in una foto e riusciamo a sentirci in mezzo a loro, vuol dire che il fotografo è riuscito in questo

Ma perché devi amarli, le loro condizioni, la loro vita. Stare insieme. Quando finivo all’Ilva di Taranto la domenica andavo a mangiare da loro, andavo nelle case, raccontavo le loro storie, i loro figli, la fabbrica, ne capivo la fatica. Quando arrivavo ai cancelli della Fiat alle sei del mattino mi abbracciavano, ero il fotografo dell’Espresso che all’alba era lì con loro, ero uno di loro, sapevo le loro difficoltà, la loro vita, le loro contraddizioni, era un mondo a parte che bisognava tentare di raccontare. Questo mondo a parte oggi c’è ancora, ma nessuno ha voglia di raccontarlo. È tornato a essere un mondo invisibile, che nessuno può imporre.