Il 7 novembre 1913 nasceva Albert Camus, scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo, giornalista e attivista politico francese. Premio Nobel per la letteratura nel 1957, morirà tre anni dopo in un incidente stradale.

Da Lo Straniero a La peste, da L’uomo in rivolta a Il mito di Sisifo, i suoi libri sono la rappresentazione del rapporto tra l’uomo e l’assurdo. L'autore, uno dei massimi esponenti dell’esistenzialismo, declina il movimento filosofico in chiave personale, ponendo al centro della sua riflessione l’uomo nelle sue contraddizioni e nel rapporto con un mondo incomprensibile. Ormai da mesi La Peste, pubblicata per la prima volta nel 1947, ha una vera e propria impennata delle vendite e dei lettori in Italia e all’estero. Il capolavoro di Camus racconta il dilagare di un’epidemia che si manifesta in un tempo non precisato degli anni Quaranta del secolo passato, in una città dell’Algeria, Orano.

Diceva nell’aprile scorso fa la professoressa Pierangela Adinolfi, docente di Culture e letterature d’area francese e francofona all’Università di Torino: “Riguardo alle motivazioni di questo rinnovato interesse, mi sembra che si possa considerare un triplice ordine di riflessioni. Il primo è inerente alla trama e alla struttura del testo, costruito per creare la rappresentazione di uno stato di allarme che si dispiega in tutte le sue fasi, a partire dalla sottovalutazione e dall’incredulità iniziali fino ad arrivare, attraverso la serrata analisi psicologica dei personaggi che ripropongono la vasta gamma di emozioni, sentimenti e passioni dell’essere umano, alla constatazione di una possibile via d’uscita. Tutte le dinamiche interpersonali, affettive, politiche, economiche, che si verificano nella situazione di epidemia e quarantena sono messe in campo. Camus parla dell’esilio, che in questo caso è la separazione dagli affetti, la privazione della libertà, parla della paura della morte e dell’impotenza umana di fronte alle catastrofi naturali. Parla anche del coraggio, della consapevolezza, cui si perviene soltanto con il dubbio circa le verità acquisite, della giustizia, della risposta individuale di fronte ad un male collettivo e della speranza, una speranza che può riportare ad ‘essere felici insieme agli altri'. Tutti gli aspetti presi in esame sono considerati dal punto di vista prettamente umano e questa è una peculiarità di Camus. Appare, fin qui, abbastanza semplice poter constatare la proiezione del lettore in una realtà, quella camusiana, che riproduce le caratteristiche essenziali di quella in cui il lettore stesso sta vivendo”.

Considerata una metafora di quella spaventosa epidemia che negli anni quaranta dilagò in Europa con il nome di nazionalsocialismo, oggi La Peste richiama effettivamente un’interpretazione fedelmente letteraria di ciò che viene raccontato in un crescendo inarrestabile di paure e conferme. Nell’apertura del romanzo Camus descrive l’ecatombe dei topi e i cadaveri dei roditori che infestano le strade di Orano. Eppure la maggior parte della popolazione preferisce voltarsi dall’altra parte e continuare la propria vita come se il problema non esistesse e riguardasse solo gli altri, i topi.

Nessuno aveva ancora davvero accettato la malattia - scriveva 77 anni fa l’autore -  Quasi tutti erano in primo luogo sensibili a ciò che interferiva con le loro abitudini o toccava i loro interessi. Ne provavano fastidio o irritazione, e non sono questi sentimenti che è possibile contrapporre alla peste. La loro prima reazione, per esempio, fu di prendersela con la pubblica amministrazione”. Ma alla fine il dramma colpisce tutti.

“Da questo momento si può dire che la peste ci riguardò tutti. Finora, nonostante la sorpresa e la preoccupazione suscitate da questi eventi straordinari, ognuno dei nostri concittadini aveva continuato come poteva a dedicarsi alle proprie occupazioni, al proprio posto. E così doveva senz’altro essere in seguito. Ma dopo che furono chiuse le porte, tutti si accorsero, compreso il narratore, di essere sulla stessa barca e di doversene fare una ragione. Così, per esempio, un sentimento privato quale la separazione da una persona amata divenne improvvisamente, sin dalle prime settimane, quello di un’intera popolazione e, insieme con la paura, il principale motivo di sofferenza di quel lungo periodo di esilio”.

Il Natale di quell’anno - si legge nelle tristemente profetiche pagine del romanzo - fu la festa dell’Inferno piuttosto che del Vangelo. Le botteghe vuote e prive di luce, la cioccolata finta o le scatole vuote nelle vetrine, i tram carichi di facce scure, nulla ricordava i Natali trascorsi. Nella festa in cui tutti, ricchi o poveri, una volta si riunivano, non c’era posto se non per alcuni godimenti solitari e vergognosi che certi privilegiati si procuravano a peso d’oro, in fondo a un sudicio retrobottega. Le chiese erano piene di lamenti piuttosto che d’atti grazia. Nella città tetra e gelata alcuni ragazzi correvano, ancora ignari di quanto li minacciava. Ma nessuno osava annunciargli il dio d’una volta, carico d’offerte, vecchio come il dolore umano, ma nuovo come la giovane speranza, la stessa che impedisce agli uomini di lasciarsi andare alla morte, e che non è se non semplice ostinazione a vivere”.

La letteratura ancora una volta ci permette di comprendere psicologie e reazioni di massa e i nomi che si potrebbero evocare oltre al citato Camus, sono Manzoni, Tucidide, Petrarca, Boccaccio, Defoe. Nella storia umana e letteraria ciò che rende simili le pandemie non è la semplice comunanza di germi e virus ma il fatto che le nostre risposte sono sempre le stesse: negazionismo, diffusione incontrollata di false notizie, paura, isolamento, ricerca di un capro espiatorio. Ma  in tutte le storie, anche quella che stiamo inimmaginabilmente vivendo, rimane una sola, unica, grande consapevolezza: quella che ci si salva e si va avanti solo tutti insieme.

“Lui sapeva quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri - scriveva ancora Camus - ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe il giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini,  la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice (…) Il dottor Rieux decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, (…) e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”.

“Non dimenticheremo!” abbiamo detto qualche mese fa, bene, non dimentichiamolo.