Uno dei caratteri distintivi del movimento di liberazione italiano, nella comparazione con i movimenti di resistenza europei che si opposero al fascismo italiano e tedesco, è certamente l’intreccio tra lotta armata e varie forme di resistenza civile, sia nelle campagne, sia nelle città. In particolare gli scioperi e le agitazioni, che coinvolsero molte fabbriche del centro nord con un’intensità e continuità che non hanno confronti nei comportamenti degli operai di altri paesi occupati. Intensità e continuità che hanno portato, nel corso stesso della lotta di liberazione, a definire la resistenza italiana come un risultato originale e particolarmente efficace. Inoltre la presenza rilevante di operai tra le fila della resistenza armata, il coinvolgimento delle fabbriche nella fase conclusiva della lotta, in particolare nelle vicende insurrezionali delle maggiori città del nord, ha costituito un ulteriore elemento di caratterizzazione.

L’entrata in guerra nel giugno 1940 è accompagnata da una serie di provvedimenti che stabiliscono nuove regole per il mondo del lavoro in fabbrica. Da una parte quelli che selezionano le industrie ritenute indispensabili per la produzione bellica, dall’altra quelli che toccano la condizione operaia e la “adattano” alla situazione di guerra. Questi provvedimenti sono accompagnati da un potenziamento e un’intensificazione degli strumenti di controllo sulla forza lavoro dell’industria. È palese l’intenzione del regime di anticipare e prevenire qualunque turbamento che le vicende di guerra potrebbero far nascere nel mondo operaio.

Questa intenzione si manifesta in forme dirette nelle fabbriche coinvolte nella produzione di guerra con una rinnovata presenza del partito fascista che intensifica la propaganda tra i lavoratori. Gli organi repressivi moltiplicano le loro attenzioni nei confronti di coloro che, per il loro passato antifascista o semplicemente per indole poco remissiva, si rivelano più insofferenti ai controlli e più reattivi alla pressione che viene esercitata sui lavoratori.

Le fabbriche diventano obiettivi strategici, il che fa degli operai, non solo in termini retorici, i soldati della prima linea del fronte interno. Bastano pochi mesi per verificare che si è prodotto un mutamento profondo nel concetto stesso di guerra: si tratta ormai di una guerra totale della società e dunque anche la popolazione civile diventa componente attiva dello sforzo bellico e, di conseguenza, obiettivo di guerra. È una guerra che si ridefinisce e che ridefinisce la figura del nemico: i confini tra il militare e il civile si fanno labili e mutano le regole del conflitto armato.

Mentre le fabbriche diventano obiettivi di guerra, le condizioni vita e di lavoro, a partire già dal 1941, si vanno deteriorando. Nell’insieme si creano le condizioni interne ed esterne alla fabbrica perché si arrivi ad un punto di rottura proprio in un settore della società italiana che il regime fascista considerava la colonna portante di quel “fronte interno” che avrebbe dovuto sostenere lo sforzo del fronte militare. Non a caso le strutture del partito fascista e del sindacato, fin dall’inizio della guerra, erano state chiamate a monitorare, a controllare, il mondo operaio, un mondo mai completamente acquisito all’ideologia e alla prassi del regime fascista.

La questione del lavoro è infatti centrale nel fascismo, tanto da ispirare una elaborazione teorica che avrebbe dovuto dare forma ideologica compiuta al tentativo di integrazione del lavoro nel sistema statuale fascista. Ma il passaggio è complicato perché la proposta del corporativismo fatica a tradursi in esiti istituzionali soprattutto perché si propone di comporre due elementi che confliggono: da un lato affermare la collaborazione tra le classi e dall’altro, nello stesso tempo, confermare il principio di gerarchia senza il quale il fascismo si nega. Così, mentre nei confronti del mondo contadino il ruralismo, declinato in più versioni, dimostrerà una certa efficacia nella cultura del consenso, per quanto riguarda il mondo operaio il regime non riesce a elaborare un discorso che faccia del mondo della fabbrica e dell’industria un soggetto portatore attivo della proposta corporativa. L’immagine del lavoro operaio non riesce a saldare fabbrica e fascismo, come in parte riuscirà a fare il nazismo in Germania. Nelle strutture fasciste, sindacali, politiche, corporative, resta una insuperabile diffidenza verso una classe avvertita come ostile o comunque non acquisita alla causa della rivoluzione fascista.

L’antifascismo degli operai
Da parte delle autorità fasciste i comportamenti degli operai che protestano e scioperano, poiché non possono essere spiegati come atti che hanno alla loro origine la guerra e gli effetti che essa produce sulla loro esistenza, verranno quasi sempre attribuiti alle manovre e all’attività disgregatrice dei nemici principali del fascismo, ossia i comunisti. Il complotto comunista diventa così, nell’immaginario fascista, la spiegazione, ma anche il luogo comune che impedisce di capire cosa sta succedendo nella società italiana. Ne deriva una dilatazione del ruolo che effettivamente ebbe la presenza dei comunisti negli scioperi del marzo 1943. L’impossibilità di riconoscere le ragioni della protesta come un atto di conflittualità sociale produce l’effetto di politicizzare tale conflittualità al di là delle intenzioni e dei progetti che sono riconoscibili nei gruppi operai attivi nella protesta.

L’antifascismo operaio è dunque un antifascismo che si definisce nelle cose e nel rapporto con la realtà e ha come tratto comune una marcata consapevolezza di classe. È una variante dell’antifascismo cosiddetto “esistenziale” o della “ragione”, mutuando Gramsci, che porta all’opposizione al fascismo come esito del divaricare degli interessi del regime da quelli della classe operaia. E’ una risposta certamente importante perché da un certo punto in poi individua nel fascismo l’origine delle difficoltà, e nella guerra la condizione, da cui è necessario uscire. Nei comportamenti operai si riscontrano elementi che concorrono a rendere più complesso il concetto di antifascismo. Intanto c’è un elemento di ordine generale che si attiva quando gli operai si trovano a dover rispondere a comportamenti impositivi da parte di tedeschi e fascisti e poi da comportamenti repressivi sempre più pesanti. Questo trovarsi faccia a faccia con i fascisti di Salò che da una parte invocano la collaborazione, ma dall’altra minacciano, reprimono, arrestano, deportano produce inevitabili reazioni di rifiuto e di conflitto.

Questa violenza programmata e deliberata alimenta un antifascismo che scopre nei comportamenti fascisti quell’ostilità di classe che era nel dna del fascismo delle origini, che nel ventennio era rimasta coperta e orientata contro l’opposizione politica al fascismo, ma che la situazione esasperata ed esasperante della guerra riporta a galla. I costi di questo antifascismo sono elevati: forse non si considera adeguatamente il fatto che delle migliaia di deportati politici e razziali, soprattutto nel corso del 1944, la quota assolutamente più alta è costituita da operai. Questo antifascismo ha una valenza universale perché accomuna i perseguitati operai ai deportati politici e razziali.

Ma c’è da considerare anche un’altra componente su cui forse non si è riflettuto adeguatamente ed è data dal fatto che le difficoltà della guerra e poi le tensioni generate dalle iniziative di autodifesa producono una crescita della percezione della fabbrica come comunità, come luogo in cui si attivano forme diffuse di solidarietà. La fabbrica di per sé è una struttura funzionale finalizzata agli obiettivi della produzione, ma se fattori esterni allentano il controllo che è necessario per garantire il funzionamento dell’organizzazione produttiva, emergono allora comportamenti e forme relazionali non finalizzate all’obiettivo funzionale, ma piuttosto orientate alla difesa e alla protezione degli appartenenti alla comunità di lavoro.

Ne derivano comportamenti e modalità di rapporto dentro la fabbrica che in qualche modo definiscono un’identità di fabbrica differenziata da situazione a situazione e spesso fortemente connessa con il contesto che sta attorno alla fabbrica. Ne deriva anche uno spazio di intervento dei partiti antifascisti, che costruiscono, è il caso dei comunisti, forti relazioni dentro la fabbrica nella misura in cui si rivelano capaci di interpretare le esigenze della comunità operaia e di offrire soluzioni alternando momenti di conflitto a momenti di mediazione e di contrattazione con le direzioni aziendali. Il linguaggio radicale e classista che spesso si ritrova nella stampa clandestina dell’epoca, nasconde in realtà un ampio spazio di mediazioni complesse e articolate, anche su questioni che possono apparire marginali (distribuzioni di viveri, di materiali di consumo, dai vestiti al sapone alle gomme delle biciclette), ma che nelle condizioni date sono preziose e consentono di tirare avanti.

La centralità del lavoro nella Resistenza
Il problema dell’insurrezione riguarda la definizione del rapporto tra iniziativa operaia e lotta armata. Senza aprire una riflessione a tutto campo sul tema, si può tuttavia rilevare che il ruolo degli operai risulta centrale e in alcune situazioni decisivo. Anche in questo caso con varianti notevoli legate strettamente alle esperienze dei mesi precedenti, ma anche alle condizioni che si producono a ridosso delle giornate della Liberazione. Così si va dalla esperienza compiuta dell’insurrezione di Genova, dove la resa dei tedeschi avviene nelle mani dei quadri operai che hanno diretto la lotta, alle vicende più contrastate e rischiose dell’insurrezione a Torino, che fino all’ultimo resta esposta al rischio di uno scontro senza quartiere, alle giornate milanesi, dove l’abbandono del campo da parte delle forze fasciste e tedesche facilita la liberazione.

La guerra entra di prepotenza nei discorsi operai e finisce per costituire il punto attraverso cui si valutano le coordinate della propria esistenza; si valuta l’abbassamento repentino della qualità di una condizione fino a pochi mesi prima relativamente protetta, ma anche e soprattutto la minaccia diretta all’esistenza di ognuno. Si tratta di un passaggio che taglia le esistenze di centinaia di migliaia di persone e che da questo punto in poi sta sullo sfondo di ogni scelta e comportamento collettivo, un passaggio da cui non si può prescindere nella valutazione del protagonismo operaio espresso dagli scioperi. Gli operai sono contro la guerra perché la guerra è contro di loro.

La classe operaia e il Lavoro escono dalla guerra con un prestigio e una forza notevole, che ne fanno la componente sociale che meglio ha saputo prepararsi al dopo. È un prestigio riconosciuto dalle altre forze politiche, anche da quelle moderate che nei loro programmi non possono fare a meno di richiamare la dimensione del lavoro, il ruolo dei lavoratori e della loro rappresentanza. Perché i lavoratori hanno vinto la prova che si era avviata nel marzo del 1943. La guerra di liberazione dai tedeschi era stata vinta, lo scontro politico e civile coi fascisti anche; la guerra di classe, quella che si era giocata dentro le mura delle fabbriche presentava novità indiscutibili. Nei giorni della liberazione il potere degli operai è fisicamente evidente perché sono loro e non i proprietari a controllare le fabbriche; la gestione delle fabbriche più importanti è stata affidata ad organismi straordinari nominati dal CLN mentre le strutture di rappresentanza in fabbrica sono nominate dagli operai.

È una novità che attiene al prima ma soprattutto al dopo; è la questione del come si esce dalla guerra e si incomincia una strada nuova. Un percorso che non può non prevedere un ruolo attivo per quella parte di società che ha assunto con crescente rilievo un ruolo da protagonista e che ha spostato gli equilibri. Quel ruolo svolto ha dato al Lavoro un rilievo da cui non si può prescindere. Questo è il dato fondamentale: il lavoro come valore da riconoscere e far riconoscere in una società democratica. Quasi una rinnovata traduzione della lezione gramsciana che ha privilegiato la fabbrica come luogo di combattimento e che ora si realizza su una scala inattesa in grado di porre la questione del rapporto tra fabbrica e società come un rapporto mediato da un personale politico selezionato dalle lotte operaie e dalla lotta resistenziale, consapevole del ruolo svolto e forte di una identità costruita nel confronto con la realtà. Al vuoto prodotto dall’8 settembre la classe operaia, il mondo del lavoro, dà forza e respiro e si pone come soggetto attivo nella definizione dei tratti di fondo del paese che sta uscendo dalla prova più dura e più sconvolgente della sua storia.

Francescopaolo Palaia è ricercatore presso la sezione storia e memoria della Fondazione Giuseppe Di Vittorio