Inutile negarlo: il carcere vive un momento di grande difficoltà. È una difficoltà che si articola in più aspetti, investendo tutte le figure che, per motivi diversi (amministrativi, gestionali, professionali, di analisi esterna, di supporto volontario o quant’altro) percorrono quegli spazi intramurari; oltre che, ovviamente, coloro che in essi abitano per eseguire una sanzione penale detentiva. 

Non c'è solo il sovraffollamento
La difficoltà del presente riguarda essenzialmente l’indecifrabilità della funzione detentiva in un contesto che da anni non è più in grado di inviare segnali leggibili e unitari a chi in carcere deve operare sulla base di un mandato assegnato dalla Costituzione e riconosciuto dalla collettività. Soprattutto quando questa indecifrabilità si accompagna a condizioni materiali degradate e rese sempre più insostenibili da un rapporto di lavoro che ha visto aumentare i destinatari del proprio impegno e diminuire le risorse umane disponibili. Inoltre, la cattiva qualità edilizia e manutentiva degli istituti penitenziari – che non coinvolge soltanto e prioritariamente quelli di antica tradizione, ma si estende anche alle costruzioni di anni più recenti – determina spesso un’esistenza detentiva ancor più limitata di quanto imposto dal fatto stesso di vivere un tempo recluso e coinvolge altresì chi in carcere opera in condizioni di lavoro spesso inaccettabili.

Gli esempi non mancano e spaziano un po’ per tutta la lunghezza della penisola; così come sono note le condizioni di sovraffollamento che riguardano alcune sezioni o interi Istituti. Tuttavia, non credo che la difficoltà attuale – che spesso sfocia in rapporti interni estremamente tesi e in atti di autolesionismo o di aggressione nei confronti di chi direttamente opera a contatto con la materialità della vita reclusa – sia restringibile al sovraffollamento e alla corrispondente carenza dell’organico. È vero, il sovraffollamento determina una materialità quotidiana estremamente difficile: di breve durata sono stati gli effetti dei provvedimenti presi all’indomani della sentenza pilota della Corte di Strasburgo nel ben noto caso Torreggiani e altri c. Italia.

Questi hanno dato un periodo di respiro, ma il pendolo dei numeri della detenzione ha ripreso presto a oscillare verso l’alto, fino a raggiungere valori molto vicini a quelli che avevano determinato quella sentenza; i provvedimenti dei mesi scorsi volti a creare spazi da utilizzare in caso di espansione del contagio della pandemia e i minori ingressi avuti nel periodo di lockdown hanno riportato lo stesso pendolo verso il basso, ma l’oscillazione ha già iniziato a muoversi nel senso contrario. In sintesi, il sovraffollamento è un problema, grave, ma da solo non in grado di riassumere la difficoltà del presente perché, a mio parere, questa va letta innanzitutto sul piano qualitativo prima ancora che quantitativo. 

Manca il senso di una missione
Per chi lavora in carcere o nell’amministrazione dell’esecuzione penale la difficoltà sul piano qualitativo si riassume nell’assenza, da anni, di un progetto definito e chiaro verso cui direzionare la propria azione e che permetta di riconoscere il proprio operare come parte di una realtà che, pur nelle inevitabili differenze al proprio interno, esprima una volontà complessiva, con obiettivi condivisi, e non un insieme di voci spesso conflittuali le une con le altre.  

Per chi in carcere è detenuto, la difficoltà qualitativa si proietta nell’inutilità del tempo trascorso in quei luoghi difficili e che finisce per essere solo tempo sottratto alla vita e non tempo di riassunzione di una responsabilità che, oltre a portare a rianalizzare il proprio passato e il perché dell’attuale situazione soggettiva, proietti verso un diverso ritorno al contesto esterno. Due difficoltà simmetriche che finiscono per essere contrapposte e interagire nei termini di una logica di inimicizia che nulla ha a che vedere con quanto il Costituente ha ipotizzato quale risposta statuale alla commissione di un reato. Per l’analista che esamina dall’esterno proprio quest’ultimo aspetto, la stessa funzione penale viene messa in crisi nel momento in cui tutto ciò che il contesto sociale esterno non riesce a risolvere finisce con l’essere rigettato verso il carcere e il tempo in esso trascorso ha solo la caratteristica della sospensione temporanea del tempo vitale, così accentuando la ricorrenza dei ritorni oltre quelle mura, quasi una costante per talune vite irrisolte. 

La pena senza funzione
Così rappresentata, la pena perde la funzione preventiva perché non ha capacità di intimidire, giacché porzioni di tempo da trascorrere nella reclusione sono soltanto segmenti periodici di vite segnate dalla marginalità sociale; perde la funzione di utilità sociale perché non rappresenta una effettiva tendenza rieducativa, in quanto non ricorre a quegli strumenti di modulazione dell’esecuzione che gradualmente avviino verso un diverso ritorno alla realtà sociale esterna; perde la stessa fisonomia retributiva, da molti attualmente auspicata e strillata come unica risposta al reato, perché in realtà si limita a una funzione simbolica volta a ottenere consenso politico e non a determinare effettiva capacità di riannodare quei fili che la commissione del reato stesso ha reciso. 

Per superare il difficile presente, il ritorno a una capacità prospettica dell’amministrazione dell’esecuzione penale e la sua articolazione in più strumenti, non soltanto privativi della libertà ma anche dialoganti con il territorio, è quindi una necessità sia per chi in carcere lavora, sia per chi di esso è temporaneamente ristretto, sia, infine, per chi si interroga su quale sia la modalità democratica di declinare nel presente quel precetto costituzionale che vuole che le pene siano rispettose della dignità di ogni persona, della sua integrità fisica e psichica, e abbiano un orientamento che ne determini l’articolazione: guardare al fuori e al domani e non limitarsi all’oggi e al dentro.

Soltanto la detenzione
Si tratta certamente di un percorso difficile che deve muovere da quell’indicazione che la Costituzione esprime nel parlare di pene al plurale e non al singolare: una indicazione, questa, fino a oggi disattesa. Infatti, sostanzialmente l’unica pena prevista dal nostro codice è la detenzione: questa potrà poi articolarsi in misure alternative nel corso del tempo, ma sempre nel contesto di una centralità della pena detentiva che porta, per esempio, a confondere la detenzione domiciliare con la scarcerazione, così come recentemente gridato in qualche trasmissione televisiva. Nulla è stato fatto per introdurre pene alternative, cioè sanzioni già di per sé diverse dal carcere, da riservare ai reati di minore gravità: oggi in carcere vi sono più di tremila persone che scontano una pena – non un residuo di pena, ma proprio la pena comminata – inferiore a due anni. Presumibilmente si tratta di autori di reati minori e il fatto stesso che non abbiano avuto accesso a quegli strumenti che il nostro ordinamento prevede, appunto, come misure alternative, indica che si tratta di persone che sostanzialmente sono espressione della marginalità e della povertà, intendendo tale termine nel suo ampio significato non solo economico, ma anche di conoscenza, di connessioni sociali di sostegno. 

Sono persone che presumibilmente in carcere non sarebbero arrivate se il sistema di supporto e controllo esterno fosse stato in grado di intercettare la loro difficoltà e proporre modalità diverse di ricomposizione di quei micro-conflitti che la loro presenza comunque determina. Per essi non è possibile un cosiddetto “piano trattamentale” che richiede i suoi tempi e ha le sue lentezze, anche per le endemica carenza in carcere di molte figure professionali. 

Uno sguardo distorto
Ma, proprio questo insieme di persone detenute è indicativo dello sguardo distorto verso il carcere: uno sguardo che si concentra solo sulla “alta sicurezza”, quasi che questa riassuma in sé la complessità del mondo carcerario e non rappresenti invece meno di un quinto del totale della popolazione detenuta. A partire da questo sguardo distorto si costruisce l’opinione pubblica sul carcere e la continua richiesta di risposte centrate sul chiudere, senza guardare più ciò che non si sa e non si vuole vedere. Una opinione che sembra non volere progetti sul carcere, ma solo capacità di tenere ben chiusi. Implicitamente, non riconoscendo le molte e significative professionalità che invece l’amministrazione penitenziaria ha, anche se non sempre è in grado di riconoscerle. 

La costruzione di uno sguardo diverso è forse per tutti il primo compito e la stessa funzione del Garante nazionale delle persone private della libertà rappresenta un contributo, anche per chi ha responsabilità politica e amministrativa sulle pene e la loro esecuzione, per ricostruire uno sguardo. Che sia leggibile a chi opera e in grado di orientare progressivamente la collettività esterna.

Mauro Palma è il Garante nazionale delle persone private della libertà