Tradurre letteratura significa innanzitutto mettersi in ascolto. Ascoltare la voce dell’autore con la massima cura, per entrare nella sua testa e capire esattamente le intenzioni con cui ha messo le parole sulla pagina. Non si tratta solo di capire cosa voleva dire, ma come ha voluto dirlo; se ha usato un registro alto o colloquiale, termini comuni o insoliti, che ritmo ha dato alla frase, se ha fatto allusione ad altri testi, e così via. Un buon traduttore deve avere un orecchio abbastanza allenato da riconoscere tutti questi elementi, arrivando a una vicinanza fortissima, a un’intimità con l’autore.

Anche dei nostri migliori amici o delle persone che amiamo a volte ci capita di dire “non ti capisco”; e invece il traduttore non può permettersi incomprensioni, deve farsi un’idea molto precisa di cosa aveva in testa l’autore, anche se non lo ha mai conosciuto e vive in luoghi e tempi lontanissimi dai suoi.

A quel punto, il suo compito è costruire un efficiente meccanismo di parole capace di restituire quella stessa idea nella sua lingua; già sa che nella maggior parte dei casi sarà impossibile, che qualcosa andrà perso, ma lo sforzo va compiuto lo stesso: nel vasto serbatoio di parole ed espressioni che ha in testa, fatto della sua lingua nazionale, regionale, familiare, personale, di lingua letteraria e parlata, il traduttore cerca, valuta, sceglie e scarta i pezzi del puzzle che gli permetteranno di riprodurre, sulla pagina, le intenzioni originarie dell’autore.

È un processo che sta a metà fra la creazione artistica e la produzione artigianale; la libertà è limitata, la strada è stata tracciata dall’autore, ma all’interno di quei limiti, con le sue scelte, il traduttore esprime la sua creatività. Senza mai porsi direttamente in primo piano (se un lettore riconosce la mia voce di traduttrice in testi di diversi autori, sento di aver fallito), ma mettendosi al servizio di un tentativo di comunicazione.

Ascolto, attenzione, cura, vaglio critico, responsabilità della scelta, umiltà, accettazione del limite: questi sono gli atteggiamenti mentali che un traduttore letterario mette in campo ogni giorno nel suo lavoro. Che esercizio sano, che mestiere fortunato e prezioso: andrebbe tutelato come ogni forma di attività lavorativa che invece di estrarre energie e inaridire chi la compie aiuti, per dirla con Vittorio Arrigoni, a “restare umani”.

Martina Testa (Roma, 1975) ha tradotto una settantina di libri dall'inglese. Fra gli autori su cui ha lavorato ci sono Colson Whitehead, Cormac McCarthy, David Foster Wallace