Adesso ha uno studio: il vecchio garage di un giardiniere, a Pae, messo frettolosamente a norma e accatastato C2. L’ha diviso in due stanze, tirando su una parete di cartongesso. Fuori dalla porta di vetro smerigliato una targa dice: Dott. E. Lasso. Medicina del lavoro

Dal vetro della porta vede ombre segmentate di persone che camminano sul marciapiede. Uomini, donne e cagnolini ridotti a pixel, scomposti, atomi blandamente attaccati gli uni agli altri ed elettroni sempre più stanchi di orbitare intorno al nucleo. Immagina così di aprire le porte, trovare le strade deserte, camminare nel vuoto bianco di una civiltà arsa dalla propria disgregazione epocale. Tornare a casa dopo una perlustrazione per il sobborgo e rendersi conto di essere rimasto l’unico esemplare di Sapiens in circolazione.

Il test prima di tutto. Gli sguardi opachi di gente diventata pellegrina. Gli fa visita in studio gente comune; persone che hanno avuto un impiego da qualche parte che è ormai giunto al termine. Lo sa il dottor Lasso, lo sanno anche loro.

Ha nausea in pubblico? Se la sente di proseguire?

Altre volte, invece, sta chiuso in una specie di camper. Quando possibile c’è anche un’infermiera d’aiuto. I lavoratori sostengono la visita uno alla volta. Esame oftalmico. Quante ore passa al computer? Controllo posturale. Alla fine delle visite trascrive le sue relazioni cliniche. 

Gli uffici: quasi sempre open space: controlla le scrivanie con un metro da sarta, le sedie, l’inclinazione per rischi scoliotici. Prende appunti, misure, stila un referto. È taciturno, misura l’inclinazione dello schienale a un uomo con la camicia sudata che sta compilando un foglio di calcolo; è come prendergli l’abito per il feretro.

Non è qui con noi da molto. Saranno circa tre anni. Tre anni non sono pochi. È arrivato qui tramite un’agenzia interinale. Un caffè? 

Lasso gioca con gli occhiali. Li inforca, poi li toglie, li lascia penzolare dalla cordicella che li tiene legati al collo. Dalla finestra che può vedere seduto sulla poltrona intuisce la percussione della luce a quest’ora del mattino, il pallido biancore diffuso su tutta la superficie. A quest’ora ogni produzione è al massimo dei suoi giri. Gli sembra di essere un perdigiorno, lì, seduto, mentre attende. C’è qualcosa di metafisico in una mattinata di sole passata a evitare la dittatura dell’orario di lavoro: un’escursione del tempo inconsistente, l’esplorazione di un tempo vuoto che pure è stato regalato, a rischio di non sapere cosa farsene. È lì, sta lì, nell’evidenza dello spazio che occupa, nel suo corpo a disposizione. 

Un’agenzia, sì, ripete il tizio delle Risorse Umane, il ragionier Arnalli. Ha sui cinquant’anni, i capelli neri e radi, la faccia vetrosa. Ha un accento milanese, ma non è detto che sia un accento naturale, che provenga dalla lingua della madre: potrebbe essere il dono di un precedente lavoro, un soggiorno di qualche anno in Lombardia, oppure una lingua del tutto artificiale, appresa tra uffici e pranzi di lavoro, imitata un lemma alla volta. 

Tre anni, dice. Inquadramento B3. Lo avevamo messo al commerciale. Comunque non è mai stato brillante. Sì, faceva il suo lavoro, a volte anche bene, ma ecco non aveva mai la visione. Comunque niente a che vedere con quello che accade ora. 

Dov’è lui?, chiede Lasso.

Non è una questione semplice, capirà. L’azienda tenta di muoversi con i piedi di piombo. Il tutto sta nell’affidarsi, ma di questi tempi la fiducia è sempre più mal riposta. Avevamo anche pensato di far benedire il luogo: prima gli allontanamenti, cioè, la crisi, poi il titolare e la malattia, infine questo… che poi, un prete, be’, sarebbe stato il più giusto giudice per valutare la situazione, ma il figlio del signor Gobetti è stato inflessibile. Vabbè, è lui del resto che decide. Come si dice: lui stacca l’assegno. Fosse toccato a me, però… Ma non sono io a decidere. Per quanto, in fondo: chi è che manda avanti un’azienda? 

La sua vita si riduce essenzialmente a questo: ascoltare i lamenti degli altri, discernere in mezzo a questo rumore radioattivo fatto di insoddisfazione e pianto il lamento sopito di chi non emette suono. La lenta auto-riduzione di sé, che conduce alla stanza nera e senza speranza; la migrazione su un pianeta lontanissimo, senza luce e freddo. 

Davide Endresson. Si chiama così.

Il gozzo duro butta giù un sorso d’acqua; posa il bicchiere di plastica sul tavolo. Arnalli dice che non si aspetti chissà cosa. Non accadrà niente, è proprio questo il punto. Il gozzo duro sussulta e poi torna immobile. Endresson ha grandi cuscini di pelle sotto gli occhi, che raccolgono i suoi bulbi da tiroideo. Sono sacche arrossate di luce artificiale. È vestito con una camicia bianca a righe sottili. A differenza degli altri impiegati ha il badge attorno al collo, legato con un laccio giallo fluorescente. Gli altri lo tengono in un cassetto, lo usano soltanto quando devono entrare e uscire. Così lui sembra un visitatore giornaliero, più che un dipendente a tempo indeterminato dell’azienda. È questo che Arnalli ripete più spesso: lui è a tempo indeterminato. Certifica il tradimento.

Lo hanno assunto al settore vendite, nel commerciale, come spesso accade per gente della sua età. Le aziende non hanno altro da offrire, nient’altro da cercare: soltanto qualcuno che possa vendere. Ogni via di fuga dalla soglia della crisi è la vendita, di fronte alla quale qualunque pianificazione o visione del futuro crolla. Dal fascicolo di Endresson emergono studi superiori di alberghiero, esperienza come agente immobiliare, un corso d’inglese promosso dalla provincia. È la persona perfetta per scomparire. Lo hanno destinato all’ufficio marketing. 

La magrezza del suo corpo è già una diagnosi clinica. È un’anoressia in levare, un progetto di dimagrimento radicale che deve aver raggiunto uno stadio avanzato e su quell’esoscheletro commovente qualcuno ha aggiunto, faticosamente, altra carne, altro peso. 

Non si sarebbero fatti alcun problema a licenziarlo, dopo la prima settimana di silenzio, se non fosse stato per il collega di Arnalli, un ragazzo sui quarant’anni, appena sposato, con una figlia: ha soltanto suggerito che Endresson non stesse assumendo una postura, ma fosse adepto di una qualche setta religiosa E dunque, il licenziamento, sarebbe stata discriminazione e non più negligenza. Tutti hanno riso, tranne proprio Gobetti. La religione del silenzio. 

Glielo fanno incontrare un’altra volta. Non cambia niente. Endresson è già nella saletta del caffè. Lasso si siede di fronte a lui, gli fa qualche domanda: stavolta la conversazione – che è puro solipsismo – è ancor più sterile di prima: il transfer è fallito, non c’è alcun appiglio all’empatia per esplorare questa persona. Endresson è una farfalla, senza corpo e senza passato, non ha origine, non ha stirpe. Nel file aziendale non si menzionano che un indirizzo e una data di nascita. In questo momento Davide Endresson ha 37 anni. Non ci sono notizie sulla sua famiglia, ma a vederlo adesso – avvizzito e grigio, nonostante il sole da insonni che gli evidenzia il volto – non sembra figlio di qualcuno. Non dà l’impressione di trascinarsi un corredo di tutine di stoffa, di infanzia, di culle, di tentativi stentati per uscire dalla febbre oscura della giovinezza. Non sembra un corpo che abbia accolto carezze. Essere in silenzio perpetuo non gl’impedisce, al mattino di radersi, così come non gl’impedisce di usare la toilette. Il silenzio non ha accentuato alcun aspetto bizzarro in lui: semmai ha svelato un’intrinseca incongruenza in tutta la sua persona. 

Si fissano per un’ora. Endresson, di tanto in tanto, distoglie lo sguardo, attirato dalla luce che proviene da fuori. Altrimenti siede composto con entrambe le braccia sul tavolo. Ha una graffetta in mano: la usa in una prestidigitazione continua. Questo oggetto significa qualcosa per lei? La sua famiglia vive in città? È sposato? Ha figli? Dove va a fare la spesa, in quale quartiere? I suoi capi sono soddisfatti del suo lavoro? Si rende conto che quella strategia senza speranza non ha alcuno scopo che far spazientire Arnalli, tutte le HR e persino il dottor Gobetti del suo lavoro. 

Un messaggio di Arnalli lo avverte che il prossimo incontro è rimandato, per il momento. Dopo qualche settimana Lasso è sicuro che nessuno dalla NKG lo richiamerà. Il suo lavoro lì dentro non serve più. Li ha delusi. È così facile sparire nel nulla, finire nell’indistinto. Endresson, invece, dona continuamente il suo corpo: giorno dopo giorno porta sul banco dei reperti l’evidenza della sua carcassa senza voce, anonima e irredenta, eppure sconvolgente. Lasso valuta che Endresson segua un disegno politico, una ieratica forma di sciopero. Una ribellione afona, che non esprime né potere né sottomissione al potere. 

Dopo qualche tempo si dimentica di lui, o almeno: crede di dimenticarsene. È troppo l’affanno quotidiano, la vendetta che domandano i giorni perché si possa avere a cuore qualcosa. Così il pensiero di Endresson perde d’intensità, si esaurisce poco a poco. Non c’è più alcuna proteina dentro la memoria. I giorni, le ore, i documenti da riempire e consegnare all’amministrazione della ASL Toscana Centro gli rubano ogni altro momento disponibile. Tutto è progettato per sottrargli energia vitale. Negli anni lo ha visto negli occhi di tutti i suoi pazienti: gente che aveva mollato un lavoro perché convinta di avere in mano un fiore dai molti petali di possibilità, ma erano illusioni. Tutta quella gente ha soltanto voluto essere migliore di quel che è: ma alla fine tutti si sono fatti prescrivere gli antidepressivi. 

Vive nello spazio di un dopo. Una vita da day after, postuma. Manuali di routine quotidiane per vivere in quell’intercapedine. Dopo l’incontro con Endresson tutto è cambiato: adesso perlopiù non lavora. 

C’è un ragazzo che muore, gli viene a dire gente del quartiere. Un ragazzo muore, si chiama Elio, è a casa dei suoi, adesso. Morirà, tutti ne sono convinti. Lasso dice che lui è stato soltanto un medico del lavoro: non può fare nulla. Lasso, lo stregone, l’ospite che veniva dal nulla e al quale adesso la comunità di quell’hinterland chiede qualcosa, un tributo. Che svolga il suo lavoro. Così, alle quattro del pomeriggio è in casa del ragazzo. L’appartamento è illividito dalla luce preserale che lascia esplodere le tinte purpuree dei mobili tristi. Non ci sono libri negli scaffali: solo un’enciclopedia di Arte Italiana in quattro volumi e un’altra della quale Lasso non riesce a leggere il titolo sulla costola: sono più di dieci tomi, hanno una rilegatura di colore oro sbiadito; appartiene a una di quelle collezioni di enciclopedie che venivano vendute porta-a-porta. Sa come vanno queste cose: il commerciale suona a tutti i campanelli della palazzina, apre una signora con la vestaglia, la richiesta di ripassare quanto sarò tornato il marito; oppure figli piccoli, genitori forse nascosti in casa, sul letto, strinati da psicofarmaci. Talvolta qualcuno abbocca, lascia entrare; il venditore si sbraca, gestisce lo show. 

Cos’ha il ragazzo? Nessuno lo sa. Gli hanno fatto esami del sangue, ha avuto diagnosi cliniche da medici della zona. Non ha niente, all’apparenza. Deve andare in ospedale, lì hanno strumentazioni più efficaci. Almeno lo guardi, ci parli, lo conosca. Questa gente apre la porta della propria casa spoglia a Lasso. La palazzina nella quale vivono è accanto a una conceria. Nella casa domina un odore di bollitura di carne. Per di qua. La stanza accoglie un fascio di luce polverosa dai bordi della tenda socchiusa. Il padre è un uomo con la barba arricciata e calvo. Ha una maglietta sbiadita, dei Ramones. La madre, con la parannanza sporca di macchie grasse, linfatiche, incrocia le mani appena può. 

Come ti senti? Sotto la trapunta con un Paperino gigantesco Elio ha gli occhi sbarrati. Non è così infantile come l’arredamento che lo circonda. Sotto le coperte, dalla fronte gelida e bianca, s’intuisce un tardo ventenne. Le grosse gocce di sudore che gli appiccicano i capelli sulla fronte danno l’impressione di una dentatura nera e feroce che gli sta mordendo il cranio. Sul volto la cartavetro di una barba verdognola, muffita. Come ti senti? Solo gli occhi, spalancati, bianchi di ghiaccio lo osservano; periscopici, lo inseguono nell’immobilità del volto, del corpo. Mi senti? La camera è arredata come quella di un incerto scolaro: una scrivania di formica color crema, un computer spento, il monitor col tubo catodico. Pochi libri sulla mensola sopra il tavolo: Manuale di Economia Aziendale, Storia della Letteratura Italiana in quattro volumi, un’agenda di banca posizionata di costola, Moby Dick nell’edizione “I classici della Letteratura del Novecento” uscito con “la Repubblica”. Tocca la fronte trasparente del ragazzo, gli tasta il polso, gli manipola i linfonodi sotto la mandibola. Osserva i medicinali sul comò accanto al letto: aspirina, tachipirina, Nimesulide. Senti dolore? 

Lo lasciano solo. Chiudono la porta, lui cammina sulla moquette della stanza: apre le tende. Fuori, oltre i bordi luminosi della finestra, il sole color mattone rende tutto meno importante. Sulla coperta il Paperino stazzonato ha i tratti deformati dalla pieghe. I suoi passi non fanno rumore. Avvicina la testa allo schermo fosco del computer. È un modello vecchio, i colori sono di un grigio ministeriale. Prova la sedia davanti alla scrivania. Lo schienale lo colpisce sotto le scapole e la seduta è troppo dura: l’ideale per suscitare dolori posturali in chi la adopera otto ore il giorno. Pensa a tutte le piccole morti che ha visto negli uffici: piccoli dolori insufflati dall’ambiente, ormai cronicizzati. Di tutti quei corpi alterati, con dolori lievi o con più severe complicazioni, negli open space di ultima progettazione – e che non facevano che svecchiare modelli precedenti, senza riprogettare alcunché – o nelle fabbriche non ha potuto che alleviare i fastidi più superficiali. In pochi casi è riuscito a fare diagnosi risolutive. 

Torna a sedersi accanto al letto. Appoggia i gomiti sulle cosce e si sporge verso Elio. Non hai fame? Non mangi? 

In cucina la famiglia sta preparandosi la cena. Gli chiedono come sta il ragazzo, ma lui ripete che devono portarlo all’ospedale. Lasso ripete: io sono solo un medico del lavoro. Il mio caso più importante negli ultimi dieci anni è stato Davide Endresson. Lo pregano di aggiungersi alla cena: stanno preparando un brodo per Elio. La signora allunga la mano e afferra quella di Lasso: lo traduce al tavolo, gli scalza la sedia, lo invita a riposarsi. Gli dice che è stanco, come un cieco stanco. C’è una pentola piena d’acqua che scalda sul fuoco. Il padre del ragazzo dice che è un peccato che Elio stia morendo proprio adesso: ha letto, infatti, che tra qualche anno – non molti, solo pochi – le persone non moriranno più. Ci saranno nuove tecnologie che le aggiusteranno: piccoli computer iniettati nelle vene. Dopo un po’ la madre annuncia che il brodo è pronto. Vado io signora, dice Enrico Lasso. Si fa dare un vassoio, con sopra una tazza da caffellatte ripiena di liquido giallastro e odoroso, un cucchiaio, un fazzoletto di carta e un bicchiere di acqua. Si volta verso la stanza di Elio, aggrappato al sogno del ragazzo di sopravvivere nel gelo dei suoi tremori. 

Filippo Polenchi è nato e cresciuto a Firenze. Lavora, ha famiglia, legge, scrive. Descrive, osserva. Suoi articoli sono apparsi su “Alfabeta2”, “L’indice dei libri del mese”, “La balena bianca”. Suoi racconti sono apparsi su “Nazione indiana”.

Andrea Biancalani vive a Prato. Graphic designer e fotografo collabora con diverse case editrici italiane. Ha vissuto tra Messico e Perù. Ha realizzato mostre fotografiche e pubblicato su riviste di settore. Ultimamente le sue foto sono apparse su "Nazione Indiana”.