Sempre nel posto sbagliato, Luigi Di Ruscio: come l’esule che sull’esilio più abbia riflettuto, Edward Said. Alieno in Norvegia (vi era emigrato nel 1957 provenendo da Fermo, nella “Marca sporca”, dove era nato nel ’30; vi morirà nel 2011), ma ancor di più coi suoi conterranei. Eloquente l’episodio di Cristi polverizzati (la più esplosiva delle “memorie immaginarie” raccolte nei Romanzi: sospirata pubblicazione per una major, Feltrinelli, caduta purtroppo postuma nel 2014), della visita alla musa del neorealismo ‘ufficiale’, Renata Viganò. 

Siamo nel ’53 e Luigi ha appena pubblicato con Schwarz (che l’anno dopo terrà a battesimo pure Elio Pagliarani, e nel ’56 Antonio Porta: gli autori della Neoavanguardia che sempre lo stimeranno) la sua prima raccolta, con un titolo bellissimo scelto dal prefatore Franco Fortini: Non possiamo abituarci a morire. Ha appena vinto il premio dell’Unità, ma capisce che qualcosa non va: “io avevo cercato di leggere L’Agnese va a morire, ma devo confessare che non ci capivo niente, è un destino che le cose che tutti dicono facili io non riesco a capirle, mi sono più facili le cose difficili. Quando sono davanti alla cosa che tutti dicono facile penso subito che deve esserci un mistero sotto, la cosa non può essere così cretina e così mi perdo in un casino di misteri e enigmi inesistenti, una cosa lodata da tanti critici non può essere una cretinata (…). Insomma in quel periodo mi sembrava molto più chiaro Gadda e mi ripetevo spesso: tendo ad una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di propormi come forme e come obbietti (…). Insomma devo confessare, con vergogna, che queste erano le cose che mi sembravano estremamente chiare e il resto un caos di enigmi impenetrabili”. 

Finisce che viene messo alla porta (“non ci saremo mica sbagliati, questi sono comunisti o fascisti?”), e Di Ruscio prende atto che la sua è “la vergogna delle lettere italiche”.

Non è un caso che la storia del suo accesso impossibile alle lettere italiche si riassuma in (almeno) quattro rifiuti di Einaudi: la casa editrice più legata (allora) all’ortodossia di partito. Nei tardi anni Sessanta, a rinviare al mittente tanto i versi che le prose è il redattore più ai suoi antipodi immaginabile, Italo Calvino (“Amo l’ordine e la pulizia mi scrive Italo Calvino, è chiaro che non vuole più saperne di me, piuttosto mi consiglia di rivolgermi agli Informali. Ma chi cazzo sono questi Informali? Artisti che rifiutano qualsiasi forma, apologeti dell’inconscio e del profondo io. Per far parte della corrente non basta essere rigorosamente informali, occorre essere invitati, e chi volete che l’inviti un randagio come me?”: Memorie immaginarie e ultime volontà, Senzapatria 2011). 

Ma la natura sadomasochistica di questa vergogna emerge nel 1982. A gestire la ‘bianca’, stavolta, sono Franco Fortini, Pier Vincenzo Mengaldo, Alfonso Berardinelli e il giovane Walter Siti, da poco autore del Neorealismo nella poesia italiana in cui aveva analizzato anche i versi del giovane Di Ruscio: proprio a Siti viene affidata la cura dell’antologia. Ma Di Ruscio (come racconta nello Zibaldone norvegico, MUP 2013) s’imbizzarrisce, tergiversa, manda tutti al diavolo (“la scelta delle mie poesie da pubblicare devo farla io e non il Walter Siti”). La collana passa di mano, e il libro non esce.

Una vergogna, certo. Quella che per tutta la vita perseguita il poeta con la quinta elementare: “fa il poeta e scrive ‘l’aradio’. Avevo vergogna di tutti i miei sbagli ortografici, erano come peccati mortali (…) Come ti permetti d’iscrivere le poesie nostre?”. Autodidatta dalla cultura (ancor più filosofica che letteraria) misteriosa, nel più di mezzo secolo d’esilio Di Ruscio avrà poche occasioni di parlarlo, l’italiano, e man mano finirà per reinventarselo. La sua condizione emblematizza come solo quella di Amelia Rosselli, nel nostro Novecento, la “perdita” che per Said rappresenta, nel caso-tipo di Conrad, “una sorta di cantus firmus” della vita, prima che dell’opera, di ogni esule. E proprio Firmum, giocando col toponimo del paese che gli ha dato i natali, intitolerà nel ’99 Di Ruscio la prima autoantologia dove si vendica coi “professori in belle lettere” (la seconda, del 2007, avrà il titolo volutamente fuorviante di Poesie operaie).

Ma, a differenza di Conrad, Di Ruscio non abbraccerà mai la lingua ospitante (“Per resistere sono necessari esilio, solitudine e astuzia, cose che raccomandava anche Joyce. In quanto a esilio e solitudine non posso certo lamentarmi, mi manca però l’astuzia”). La poesia è la cellula di fiele in cui si rinchiude tutte le sere, in fuga dall’“inferno” della fabbrica di chiodi dove lavora per quarant’anni; e sa che sulla vecchia Olivetti batte con la stessa furia alienata: “finita una produzione ne inizia un’altra”. Per questo il suo “cosmo poetico” – scrive Massimo Raffaeli, il critico che nei decenni più si è battuto per restituire alle lettere italiche questo loro ancora malnoto, ma certo, maestro avverso – “è una totalità dinamica, in perpetuo movimento, dove nulla è certo se non l’incalzare del ritmo”. 

In questo scrivere non c’è redenzione possibile (se non in certi squarci di futuro, di matrice appunto fortiniana, che però spesso propongono paradossi labirintici). Una poesia dura, violenta, cattiva; anche nella furia autocorrettoria che inibisce, qui, lo sfrenato metamorfismo linguistico delle prose. Ma di indubbia potenza: e che come nessuna scandisce (ancora Raffaeli) “lo sfruttamento per cui l’uomo diventa il lupo dell’altro uomo”: “non è destinata a noi una lunga e spettacolare agonia / non sarà per noi l’insulto di essere vivi senza coscienza / i clinici più rinomati / non appresteranno a noi lunghe strazianti agonie / la nostra miseria ci salva / dall’insulto di essere vivi senza più lo spirito nostro / ritorneremo tranquillamente nel niente da dove siamo venuti / è già tanto se il miracolo della mia esistenza ci sia stato / riuscivo perfino a testimoniarvi tutti”.

Nulla è sicuro, ma scrivi. È sempre così, con Di Ruscio; anche per le riscritture cui ha nevroticamente sottoposto i suoi testi, e che fanno del suo lascito cartaceo e digitale – pervenuto e conservato a Fermo, all’Istituto storico del movimento di liberazione delle Marche, grazie alle cure di Angelo Ferracuti – un vero labirinto. Quella uscita all’inizio del 2019 nella collana diretta da Fabio Pusterla per Marcos y Marcos, Poesie scelte 1953-2010, è la terza e più ampia delle sue autoantologie: che Di Ruscio ha licenziato l’anno prima di morire riprendendo le sue prime e ultime raccolte (e in sostanza negligendo le precedenti sue stesse scelte antologiche), così scrivendo – iscrivendo, anzi – un libro del tutto nuovo. Come spiega l’eroico curatore Massimo Gezzi, quello che leggiamo non corrisponde esattamente al libro progettato dall’autore, che decostruiva e ricostruiva i propri testi sino a un’effettiva insondabilità (“io li smonto e li ricostruisco / per raggiungere felicemente / la follia del tutto”). È però quanto più si avvicini, al momento, alla sua volontà.

Un’ultima volontà che negli ultimi magnifici versi, improvvisamente scorciati sino a precipitare su loro stessi (e dove pare tornare alle origini ungarettiane: “il male è iniziato perché verso il 1948 in un bar di Fermo”, ricorda Di Ruscio in Zibaldone norvegico, “un geometra si mise a leggere le poesie cortissime di Allegria di naufraghi irridendole, io rimasi affascinato da quelle comunicazioni rapidissime, in quelle piccole frasi pregne di significato e fui poeta per sempre e le prime poesie si persero per strada”), acquista ormai una manifesta tonalità testamentaria (ci si ricorda appunto del Natale di Ungaretti quando si legge “il miracolo di questa poesia stralunata / sgrammaticata scoronata è più che sufficiente / per una vita quasi tutta intera vissuta / verso i precipizi del mondo / e la mia pazzia non è il solo sentire le voci / in certi momenti non sento più niente / come se sul pianeta ci fossi rimasto io solo / in pace con tutto / come un oggetto perso dimenticato / quindi in salvo”: 15 epigrafi con dedica, Battello stampatore 2007). 

L’ultima pagina scritta (raccolta in Memorie immaginarie e ultime volontà) accosta l’ultima partenza alla prima: “divorato dalla febbre preparo la valigia per andare in ospedale. Le mani indugiano sulla cerniera, la paura è la stessa di quel giorno di maggio del 1957. Allora vi deponevo con cura i miei libri, con gli angoli delle pagine tutti arricciati; adesso i calzini, le mutande, i pigiami, perfettamente stirati e ricamati. Chiudo tutte le finestre, ripongo nella custodia la macchina da scrivere, ritorno tranquillamente nel niente da dove sono venuto. Nei miei versi è la mia resurrezione”. 

In uno degli ultimi frammenti, lancinante ma anche delicatissimo (come pure Di Ruscio, quando voleva, sapeva essere), si legge: “ho la bocca piena di farfalle / so benissimo che se apro la bocca / volano via tutte / e non ritorneranno neppure / se rimango a bocca spalancata per sempre”. Forse questo mistico materialista sapeva come fosse la farfalla, per gli antichi, il simbolo dell’anima; ma a prendere il volo, finalmente, sono le sue parole.  

Andrea Cortellessa è critico e saggista, insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università Roma Tre; di Luigi Di Ruscio ha curato Cristi polverizzati nel 2009 e, insieme ad Angelo Ferracuti, Romanzi nel 2014.

(Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul Domenicale del Sole 24 Ore).