Il carattere multiforme della nuova formula politica del populismo - le cui potenzialità euristiche sono state a lungo trascurate per il fatto di essersi manifestate per la prima volta nel Sud del mondo, e per lo sguardo euroatlantico adottato dagli studiosi provenienti da quelle aree -, viene a costituire la sua specificità più rilevante per il fatto di potersi declinare in versioni variamente progressiste e reazionarie, alimentando esperienze politiche e storiche apparentemente lontane, ma accomunate da alcuni elementi.

Oggi nel dibattito politico prevale, ha scritto Federico Finchelstein,“la tendenza a dipingere il populismo come una versione negativa e non problematizzata della democrazia”. Questo comporta una semplicistica, e spesso interessata, identificazione e assimilazione della democrazia con il neoliberismo. Al contrario, “populismo e neoliberismo possono essere considerati entrambi elementi che indeboliscono il pluralismo e l’uguaglianza democratici”, e che “impediscono una significativa partecipazione dei cittadini al processo decisionale politico”. Sembra un richiamo necessario, se si intende mantenere la discussione sul populismo non solo radicata nell’esperienza storica, ma anche al di qua del piano inclinato ideologico in cui sono scivolate nozioni al centro della riflessione in stagioni precedenti, come è avvenuto nel dibattito sul totalitarismo: e per tenere fermo il principio che l’alternativa al populismo si gioca nell’estensione, e non nella riduzione, delle condizioni di uguaglianza e partecipazione democratica.

In questa chiave è possibile leggere, attualizzandola, la rivolta di Reggio Calabria del 1970. Secondo alcune recenti interpretazioni, quell’evento ha rappresentato infatti il primo, forte segnale, nella storia repubblicana italiana, del distacco politica-cittadini e della frattura potere centrale-periferie: una linea che séguita fino al populismo e al localismo odierni. 

“La storia è scienza del mutamento”, ha scritto Marc Bloch. “Esaminando come il recente passato differisca da ciò che lo ha preceduto e perché, essa trova in questo confronto la capacità di prevedere in che senso anche domani si opporrà a ieri”.  

Sembra che lo spirito della rivolta di Reggio, il localismo municipale, non si sia affatto spento. Non è solo la “competizione tra territori”, così evidente oggi in epoca di globalizzazione, l’unico aspetto della rivolta che ne mostra i tratti della attualità. La crisi della rappresentanza verificatasi a Reggio nel 1970 assunse alcuni tratti diventati in seguito in modo netto e stabile caratteristici del sistema politico: l’affermazione di una dimensione personalistica della politica, allora contenuta e modulata dalle organizzazioni di partito e oggi, viceversa, capace di regolare le forme dell’aggregazione e del confronto; la proliferazione di comitati civici e di base che, in diversi contesti, si battono per un “bene comune” definito territorialmente; la diffusione e l’efficacia di toni populisti, in particolare antipartito, che denunciano il distacco tra la società e la politica.

La rivolta appartiene pienamente agli anni Settanta, come periodo di crisi e di cesura della storia d’Italia. Essa fu un segno grave e premonitore, per quanto territorialmente circoscritto, delle ‘fragili basi di consenso’ su cui era basata la ‘repubblica dei partiti’ e su cui sembra fondarsi, dall’Unità d’Italia, la classe dirigente nazionale. I moti di Reggio ebbero certamente una peculiarità territoriale, reggina, calabrese o meridionale, ma ciò non vuol dire che i processi storici che addensarono in essa fossero tipici di un’area geografica piuttosto che di un’altra. In questa prospettiva, la rivolta appare anticipatrice di processi che si sarebbero affermati in seguito, su scala nazionale e non solo, e può essere osservata come l’inizio di tendenze dispiegatesi pienamente nel presente piuttosto che come il retaggio di un antico passato.