Era il 3 aprile, a un’ora che fino a un mese prima, a Roma, sarebbe stata di punta, tra mezzogiorno e l’una del pomeriggio. Non erano tanto le notti, delle quali non si dimentica l’impensabile silenzio, ma le giornate, soprattutto quelle chiare come questa, a definire con la loro luce indifferente e assoluta i contorni di un mondo a suo agio senza di noi.

La desolazione urbana disegnata dal Covid-19 richiama più facilmente le tinte fosche, le città inzuppate nell’oscurità a qualsiasi ora, il vuoto esasperato dalle ombre, analogie per gli occhi di un male poco conosciuto e difficile da domare. Ma nella luce impietosa di una bella giornata, con il suo primo caldo acerbo, la città vuota colpiva gli occhi come quando si guarda diritto il sole, senza alcuna protezione, e si porta quella macchia nello sguardo a lungo, come una ferita.