Il 21 giugno 2020 potrebbe essere una data fondamentale per l’avvio di un percorso politico che ponga finalmente l’accento sui diritti dei lavoratori della musica e non solo. La campagna #iolavoroconlamusica e 21 Giugno #senzamusica, che si terrà nello stesso giorno in cui si dovrebbe svolgere la Festa della Musica - manifestazione internazionale che richiede prestazioni gratuite a tutti i musicisti partecipanti -  sembra infatti riuscita a unire gli umori di una categoria professionale molto variegata e complessa e per questo motivo spesso poco compatta. Quella del comparto musicale è infatti una galassia eterogenea, una filiera composta da un numero impressionante di figure: dai musicisti ai tecnici audio e luci, dagli insegnanti di musica agli orchestrali, dai Dj ai negozianti di dischi. E poi tour manager, agenzie, produttori, editori, uffici stampa e tanti altri ancora. Un lavoro spesso anche intermittente (ma non stagionale) e come tale inquadrato sempre con difficoltà dall’Inps.

L’assenza nel ddl Rilancio di misure specifiche vere a sostegno dello spettacolo dal vivo, di fatto ancora bloccato dall'emergenza epidemiologica da Covid-19, è stata considerata come l’ennesima grave dimenticanza dell’ennesimo governo, nei riguardi dei lavoratori dello spettacolo. In realtà, non è stata la pandemia a generare questa agitazione, perché da tempo la cultura, nel senso più largo del termine, è relegata ai margini del dibattito politico e con essa evidentemente anche i diritti e la dignità di tutti gli operatori che ne fanno parte. Un settore, quello della cultura, in cui lavorano ben un milione e mezzo di persone, che rappresentano il 6,1% del totale degli occupati in Italia (fonte dati rapporto Symbola-Unioncamere). Una permanente cecità politica - ben rappresentata dalla famosa frase di Tremonti “con la cultura non si mangia” - che riflette la convinzione e gli stereotipi di gran parte dell’opinione pubblica, per cui il lavoro artistico è una sorta di non-lavoro, una pratica amatoriale che ha a che fare con il proprio piacere personale e che, quindi, non può godere delle stesse tutele delle altre categorie lavorative. Pregiudizi che hanno creato le condizioni ideali per lo sfruttamento e la deregolamentazione selvaggia di molte attività, più o meno sommerse.

Come molti musicisti sanno bene, il settore dello spettacolo dal vivo è spesso vittima di richieste di prestazioni gratuite, sottopagate o in nero, di promesse di lavoro differito a fronte di quella ipocrita e insensata panacea chiamata “visibilità”.  Purtroppo anche il mercato digitale della musica, naturale via d’uscita in epoca di lockdown, non se la passa meglio, anzi la speculazione sul lavoro creativo viene estremizzata dalla condotta delle multinazionali del web (YouTube, Amazon, Spotify, Facebook, eccetera) attraverso retribuzioni ridicole agli artisti,  o addirittura senza il riconoscimento del diritto d’autore (Sky). 

Ciò che viene richiesto oggi alle istituzioni, sono delle misure straordinarie che accompagnino il ritorno alla normalità: reddito di continuità, sostegno alle imprese culturali e creative, un Fondo unico per lo spettacolo allargato a un segmento di beneficiari quanto più ampio possibile. Ma soprattutto, l’avvio di tavoli di confronto tecnico tra Governo, sindacati e i numerosi coordinamenti di artisti, tecnici e operatori culturali. Nel contempo, però, è necessaria anche una visione politica e programmatica, che metta mano ad una serie di riforme del settore, non più procrastinabili, tenendo conto delle sue specificità. E poi una redistribuzione di fondi e finanziamenti che rilancino la cultura e lo spettacolo, attraverso l’accesso a bandi con normative più agevoli e meno kafkiane: inaccessibili alla gran parte della comunità artistica non istituzionale.

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