L'intervista
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La sfida della transizione ecologica esige l'utilizzo di tutte le tecniche a noi note per ridurre l'impatto della CO2 in atmosfera: consumare meno energia, incrementare le rinnovabili, rendere a impatto zero i distretti più inquinanti tramite il confinamento dell'anidride carbonica in formazioni geologiche profonde. Una tecnologia con più di 50 anni di storia sviluppata inizialmente per facilitare l’estrazione di greggio dai giacimenti maturi e alla quale negli ultimi anni è stata riconosciuta grande potenzialità nella lotta al cambiamento climatico. Una strategia già inserita nei piani per la transizione ecologica di numerosi paesi, pronta per essere adottata anche in Italia
La crisi climatica è ormai un dato di fatto e non ci sono più dubbi su come sia necessario condividere l'obiettivo di riuscire a ridurre le emissioni di CO2 nel più breve tempo possibile, per portarle poi progressivamente a zero. Che il tempo stringa ce lo ricordano le mobilitazioni di milioni di ragazzi nel mondo, indicatori del clima in rapido peggioramento, ma soprattutto la cronaca che fotografa una sempre più frequente successione di periodi di siccità e alluvioni, che testimoniano una tropicalizzazione del clima anche alle nostre latitudini.
La recente conferenza sul clima di Glasgow ha confermato un accordo tra quasi tutti i paesi della terra per mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi dal livello pre-industriale. Il documento finale ha fissato anche l'obiettivo minimo di decarbonizzazione per gli stati membri: un taglio entro il 2030 del 45% delle emissioni di CO2 rispetto al 2010, per raggiungere zero emissioni nette intorno alla metà del secolo.
Ambiente L'ultimo cataclisma ha coinvolto nel dicembre scorso gli Stati Uniti, dove un tornado ha raso al suolo la cittadina di Mayfield, in Kentucky. Fabbriche, capannoni e abitazioni crollate sotto la forza devastante di una tromba d'aria provocando un centinaio di mortiLeggi anche
Disastri sempre più frequenti
D.C.
Da qualche tempo, il dibattito sulle strade da seguire per ridurre le emissioni di anidride carbonica si è arricchito dei pareri – spesso contrastanti – sulla cattura e stoccaggio nel sottosuolo della CO2. Parliamo della CCS – CO2 Capture and Storage – una tecnologia sviluppata negli anni ’50 e usata su larga scala per la prima volta in Texas nel 1971 per facilitare l’estrazione di greggio dai giacimenti maturi. Metodo a cui negli ultimi anni è stata riconosciuta grande potenzialità nella riduzione delle emissioni in atmosfera di CO2 per contrastare i cambiamenti climatici.
In Italia, il confinamento di fluidi nel sottosuolo è una pratica utilizzata fin dagli anni sessanta per stoccare le riserve di gas direttamente nei giacimenti esauriti presenti sotto il mare Adriatico. Un meccanismo che garantisce i nostri consumi durante i picchi di domanda del periodo invernale.
Oggi lo stoccaggio di anidride carbonica nei giacimenti esauriti di idrocarburi si può affidare dunque a tecnologie consolidate e sicure. Applicare la cattura della CO2 ai processi di produzione di energia elettrica e ai distretti energivori e hard to abate – chimico, siderurgico, cementifici, industria della carta e del vetro – ci offre la possibilità di rendere a impatto zero intere zone industriali ormai inglobate nei perimetri delle nostre città.
La cartina è tratta dal progetto europeo GeoCapacity, finanziato dalla Commissione Europea, in cui sono stati mappati con cerchi rossi le zone con grandi emissioni di CO2. I colori azzurro, verde e marrone indicano le aree di potenziale confinamento della CO2 (formazioni geologiche porose profonde, giacimenti di idrocarburi in fase di esaurimento, giacimenti di carbone). Come si può vedere nella piantina, in Italia le aree più estese si trovano nella Pianura Padana e lungo le coste dell’Adriatico.
«Abbattere le emissioni:
riduzione dei consumi, incremento delle rinnovabili,
cattura e stoccaggio della CO2»
I pareri sul riscaldamento globale sono unanimi: è sotto gli occhi di tutti l'accelerazione dei fenomeni climatici avversi dovuti alla quantità e alla velocità con cui emettiamo anidride carbonica nell'atmosfera. Per l’aumento della temperatura e il conseguente innalzamento dei mari, entro la fine del secolo rischiamo di perdere città come Venezia e New York e di contare nuovi milioni di migranti del clima. Proprio per questo è necessario raggiungere più in fretta gli obiettivi prefissati e mettere in campo tutti gli strumenti di cui l'umanità abbia contezza. In primo luogo dovremmo usare meno energia nelle nostre città, negli edifici, nei trasporti e naturalmente nell'industria. Produrre questa energia senza utilizzare i combustibili fossili (che bruciando producono CO2) e farlo sempre in modo che la transizione avvenga in maniera socialmente accettabile. Il problema è talmente grande che non esiste una soluzione unica. Parliamo di 35 miliardi di tonnellate di CO2 emesse ogni anno, dove un milione di tonnellate equivalgono alle emissioni annue di circa 125 mila automobili.
Secondo l'ing. Sergio Persoglia, già direttore di dipartimento e ora associato dell'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste, il nostro attuale modo di vivere richiede tantissima energia. "Tutto lo sviluppo dell'ultimo secolo è avvenuto grazie all'energia – spiega – e chi non ne ha ancora abbastanza ha l’ambizione di averla.” Un concetto, quello della disponibilità di energia, che non è banalizzabile con l’immagine di chi va a zonzo per le città su grossi, costosi e inutili SUV. Utilizzare internet, riscaldare o rinfrescare le nostre case, avere acqua potabile, usare elettrodomestici che liberano dai lavori quotidiani e consentono di dedicare tempo ad esempio all’istruzione e alla cultura, sono tutte cose possibili pur di avere a disposizione molta energia sicura e a prezzi abbordabili. E ancora oggi – sottolinea – la maggior parte dell'energia viene prodotta attraverso gli idrocarburi e sarà così ancora per molti anni".
Persoglia evidenzia come lo stesso sviluppo delle rinnovabili richieda enormi quantità di acciaio e cemento. "Per raggiungere la neutralità delle emissioni – spiega – non basteranno le rinnovabili ma sarà necessario catturare la frazione di CO2 che non si potrà evitare di produrre e confinarla per sempre nell'unico posto in cui possiamo metterla: non più in atmosfera e non nel mare ma in formazioni geologiche profonde. Ecco perché non si può escludere il CCS tra le tecnologie da mettere in campo. Sono molti i paesi che hanno inserito il CCS nelle loro strategie di riduzione delle emissioni – aggiunge – ma per permettere che queste tecnologie vengano impiegate su larga scala bisogna perfezionarle e farlo adesso".
La strategia italiana di riduzione delle emissioni è basata sull’azzeramento dell'utilizzo del carbone e sulla produzione di energia elettrica attraverso rinnovabili e gas. Quest’ultimo emette il 40% della CO2 rispetto al carbone. "Cosa faremo dopo? – si chiede Persoglia – Come otterremo, dopo il 2030, un'ulteriore riduzione delle emissioni? Dovremo sviluppare il CCS e farlo in maniera trasparente affinché la gente comprenda che si tratta di una tecnologia sicura, sia coinvolta in questa scelta e possa valutarne i benefici attraverso l’analisi dei dati raccolti durante il suo impiego.”
«Utilizzare energia non vuol dire solo andare in giro con i SUV.
Internet richiede energia,
le nostre case ne richiedono grandi quote»
"Il CCS – continua Persoglia – ci farà guadagnare tempo perché sposterà in avanti gli effetti più negativi del riscaldamento globale e ci darà maggior margine per poter sviluppare delle tecnologie per sostituire gli idrocarburi. Per l’ingegnere, il CCS, da solo, non è la soluzione. Ma nemmeno le rinnovabili da sole lo sono. "Non si può mettere la testa sotto la sabbia nell'attesa di tecnologie salvifiche. L'insieme delle rinnovabili, il risparmio energetico, e anche il confinamento geologico della CO2 – conclude – devono essere sfruttati fin da subito in un grande mix che ci permetta di ridurre le emissioni".
Nonostante il protocollo di Kyoto (1997), l’accordo sul clima di Parigi (2015) e l'incremento di impianti di rinnovabili, in poco meno di vent'anni, la dipendenza dai combustibili fossili è passata dal 87% al 84% delle fonti primarie di energia. Dal 2000 al 2019 il carbone è passato dal 26% al 27%, il petrolio dal 38 al 33%, il gas dal 23% al 24% e le rinnovabili dal 5% al 11%. Fin qui le rinnovabili hanno avuto un significativo incremento ma non riescono ad assorbire l’aumento continuo della domanda di energia che arriva essenzialmente dai paesi a forte e rapida industrializzaione come India e Cina e da quelli in via di sviluppo. Il nostro Paese, come la maggior parte di quelli europei, è da considerarsi virtuoso. Nel settore elettrico, il 37% dei consumi italiani nel 2020 è stato soddisfatto da fonti rinnovabili.
CARBON ZERO | CCS | IN ITALIA
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La cattura e lo stoccaggio del carbonio avviene con lo scopo di eliminare dall'atmosfera la CO2 prodotta da industrie energivore e centrali elettriche per depositarla nel sottosuolo. Questo può essere visto come un meccanismo aggiuntivo rispetto alle azioni che ci permettono di emettere meno anidride carbonica in atmosfera, a partire dalla produzione di energia da fonti rinnovabili. Tre dei quattro scenari elaborati dal gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) per ridurre il riscaldamento globale partono proprio dal presupposto sia possibile utilizzare il Carbon Capture and Storage come metodo di riduzione della CO2 dall’atmosfera. Il quarto, pur prevedendo la rimozione dell’anidride carbonica, la considera come effetto dei processi di riforestazione.
In questo capitolo vedremo come funzionano i processi di cattura, trasporto e stoccaggio
I tre processi alla base del CCS sono cattura, trasporto e stoccaggio nel sottosuolo
Cattura
Esistono due tipi principali di cattura artificiale della CO2: quella associata alla produzione di energia e quella diretta dall’atmosfera. Nel campo energetico esistono diverse strade per arrivare alla separazione e alla cattura della CO2, raggruppabili in tre grandi filoni. Cattura post-combustione, pre-combustione e oxyfuel
Post-combustione: è la tecnica più diffusa negli impianti sperimentali e dimostrativi esistenti. In pratica rimane tutto com’è, ma alla fine del processo di combustione i gas di scarico, dopo i sistemi di filtraggio per polveri e inquinanti, invece di essere immessi in atmosfera vengono inviati a un sistema di trattamento capace di separare la CO2 con processi termochimici
Pre-combustione: in questo caso viene trattato il combustibile, non il residuo della combustione. Il principale sistema è la gassificazione del carbone. Partendo da carbone e acqua si arriva ad avere idrogeno e CO2. L’idrogeno va ad alimentare il processo energetico mentre l’anidride carbonica viene inviata allo stoccaggio
Oxyfuel: a cambiare non è il combustibile, ma il comburente. Cioè il gas con cui il combustibile reagisce nella combustione, che in questo caso non è più aria, ma ossigeno puro. Questo porta a una percentuale di CO2 nei fumi di scarico molto alta e agevolmente separabile
Nella cattura atmosferica diretta, invece, grazie a processi chimici l’anidride carbonica viene “solidificata” in composti che, una volta lavorati, la rendono pronta da stoccare, o da utilizzare nella produzione di carburanti, prodotti chimici, fertilizzanti e materiali da costruzione, anche se le tecniche sono ancora sperimentali e non utilizzabili a livello industriale.
Trasporto
Una volta separata dai fumi delle centrali, la CO2 si presenta in un flusso che dovrà essere disidratato e compresso per consentirne il trasporto al sito di stoccaggio. La disidratazione è necessaria per evitare la corrosione delle attrezzature e la formazione di idrati (solidi simili a ghiaccio) che possono intasare attrezzature e tubazioni. La compressione, che renderà la CO2 un fluido denso, è necessaria per ridurre i volumi da trasportare. Il fluido ottenuto può essere trasportato via nave o attraverso condutture. Le due opzioni, entrambe già in uso, ancorché su piccola scala, rispondono a esigenze diverse e la scelta dipende dai luoghi di produzione della CO2 e quelli di stoccaggio, quindi dal percorso del trasporto.
Nel mondo ci sono circa 3000 km di condutture per il trasporto della CO2, la maggior parte delle quali negli USA, utilizzate nel recupero assistito di petrolio, cioè a fini produttivi. Questo tipo di trasporto è più economico e consente un flusso costante di CO2 tra l’impianto e il sito di stoccaggio. Il costo di trasporto in modalità pipeline è relativamente modesto: per un percorso di 100 km varia da 1 a 4 euro per tonnellata.
Stoccaggio
La CO2, una volta catturata, deve essere immessa in recipienti idonei. Questi recipienti, rinvenibili in natura, sono di diverse tipologie: giacimenti esauriti di idrocarburi, ben conosciuti grazie all'esplorazione e allo sfruttamento dei giacimenti; falde acquifero saline, con un grande potenziale di stoccaggio ma che non sono altrettanto ben conosciute dal punto di vista geologico; giacimenti profondi di carbone non sfruttabili, considerata soprattutto un'opzione per il futuro perché esiste ancora un problema tecnologico nell'iniezione di grandi volumi di CO2 nel carbone a bassa permeabilità.
Cosa succede alla CO2 iniettata in profondità? La CO2 tende a salire verso la roccia sigillante. Inizia poi la dissoluzione nel liquido tra i pori della roccia. Il liquido ricco di CO2 inizia a mineralizzarsi formando nuova roccia. Alla fine restano solo poche bolle di CO2 isolate
Ci sono alcune caratteristiche che il contenitore deve avere per risultare idoneo allo stoccaggio: sufficiente porosità, permeabilità e capacità di immagazzinamento. Deve essere presente una roccia impermeabile sovrastante che può essere in argilla o in salgemma, che impedisca alla CO2 di migrare verso l'alto. L'anidride carbonica deve essere iniettata ad almeno 800 metri di profondità, dove la pressione e la temperatura sono abbastanza elevate per permettere l’immagazzinamento del liquido in fase densa, per massimizzare le quantità da confinare. Naturalmente va verificata l'assenza di acqua potabile in queste rocce: la CO2 non deve mai essere iniettata in acque utilizzabili per il consumo o per altre attività umane.
La conoscenza tecnico-scientifica fin qui acquisita dei sistemi di stoccaggio del gas consente di progettare la conservazione della CO2 in sicurezza. Basti pensare che, in condizioni favorevoli, il gas contenuto nelle rocce rimane custodito per milioni di anni senza problemi.
In Gran Bretagna
biomasse carbon free
All'interno di un ambizioso progetto di decarbonizzazione, nel 2016, la più grande centrale elettrica a carbone d’Europa, la Drax Power Station, che soddisfa circa il 7% di tutto il fabbisogno elettrico del Regno Unito ed è situata nel nord Yorkshire, ha convertito a biomasse tre dei suoi impianti.
Le biomasse sono una fonte di energia pulita utilizzata per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Si tratta di una materia organica generata da piante e animali, appositamente trattata per essere utilizzata come biocombustibile nelle centrali elettriche. I residui di legna da ardere, gli scarti delle lavorazioni dell'industria agroalimentare, i rifiuti organici urbani, le ramaglie verdi di attività forestali e agricole, le alghe marine e gli scarti e reflui di allevamenti sono i materiali di origine organico-vegetale dai quali si produce energia.
Dal 2019 la centrale ha sviluppato il primo sistema di cattura e stoccaggio della CO2 prodotta dalla combustione di biomassa. I tre impianti su cui la Drax sta testando la tecnologia bruciano circa sette milioni di tonnellate di pellet annue e producono quattro mila MW di energia. Il sistema di cattura dell’anidride carbonica sviluppato ha attualmente una capacità di una tonnellata al giorno e rappresenta il primo tentativo di applicare la tecnologia CCS alle biomasse. L’esperimento rappresenta un ulteriore passo verso il raggiungimento dell’obiettivo di essere la prima centrale energetica europea a zero emissioni entro il 2025.
Il primato
della Norvegia
La Norvegia ha avviato un ambizioso progetto per la decarbonizzazione di una fabbrica di cemento a Brevik, nella parte meridionale del paese, gestita dalla tedesca HeidelbergCement. Per il progetto Longship l’ammontare del finanziamento statale sarà pari a 1,54 miliardi di euro. Nei piani dovrebbe entrare anche il termovalorizatore Fortum Oslo Varme (in norvegese Varme significa calore) e il progetto di trasporto e stoccaggio Northern Lights.
Quest'ultimo progetto trasporterà la CO2 liquida dagli impianti di cattura al terminale di Øygarden, nella contea di Vestland. Da lì, la CO2 verrà pompata attraverso le condutture in un serbatoio sotto il fondo del mare. Lo scopo ultimo della Norvegia è quello di decarbonizzare l’uso industriale del gas, compresa la produzione di idrogeno, conquistando così un nuovo flusso di entrate al paese, proprio in virtù dello smaltimento dell'anidride carbonica.
Il progetto di più lunga durata in Europa è sempre norvegese, il suo nome è Sleipner, operativo nel mare del Nord dal 1996. Qui l’anidride carbonica è presente nel gas estratto da un giacimento. Per venderlo, la compagnia deve necessariamente separare la CO2, che viene poi iniettata in una formazione sabbiosa profonda di grandi dimensioni. Qui si prevede verranno stoccati 600 miliardi di tonnellate di CO2. Ancora per molto tempo dopo l’esaurimento del giacimento di gas naturale.
Anche in Italia sono stati avviati progetti per la cattura della CO2 all'interno di cementifici e poli chimici, come vedremo nel prossimo capitolo.
CARBON ZERO | CCS | IN ITALIA
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Abbiamo visto come negli USA, in Gran Bretagna e Norvegia siano già attivi da tempo processi di cattura e stoccaggio della CO2. In Italia è stato inaugurato un anno fa a Vernasca, nel Piacentino, il primo impianto di cattura applicato ai processi di produzione del cemento, uno dei settori più impattanti in assoluto dal punto di vista ambientale: ogni chilogrammo di calcestruzzo libera nell'atmosfera ben 670 grammi di anidride carbonica. Oggi nel mondo si producono almeno 4,5 miliardi di tonnellate di cemento l'anno, il 60% in Cina. A Ravenna, distretto all'avanguardia nell'estrazione di gas naturale dal sottosuolo, si lavora per mettere in pratica un progetto in grado di contribuire ad abbattere significativamente le emissioni del perimetro Eni per i quali a oggi, e nel medio termine, non esistono soluzioni efficaci. Secondo la Filctem Cgil, la cattura della CO2 potrebbe configurarsi come un’appendice nella catena produttiva, doverosa, ogni qual volta ci si trovi di fronte a fonti di grandi concentrazioni di emissioni climalteranti
RavennaUn polo chimico a impatto zero
Michela Serventi
La zona industriale e portuale di Ravenna si sviluppa in un ambiente territoriale “sensibile” e di particolare complessità, tra zone naturali protette, i lidi della costa adriatica e il parco del Delta del Po. Il distretto presenta processi produttivi e categorie di servizi eterogenei: due centrali termoelettriche, un importante polo chimico e petrolchimico, un complesso di aziende del settore agroalimentare, metallurgico e siderurgico, afferenti alle produzioni per l'edilizia come cemento e ceramica, imprese di trattamento dei rifiuti prodotti e una molteplicità di attività a servizio del porto come logistica e movimentazione cantieri, armatori, spedizionieri, lavaggi e agenzie marittime.
Al largo della città romagnola, Eni intende creare uno dei più grandi centri per lo stoccaggio della CO2, utilizzando i giacimenti di gas naturale ormai esausti, che possono essere riconvertiti con un potenziale tra i 300 e i 500 milioni di tonnellate di capacità. Il progetto consentirebbe di decarbonizzare non solo l’intera attività petrolchimica locale ma anche delle altre realtà industriali presenti nel distretto. L'Eni sta già realizzando un impianto simile in giacimenti esauriti al largo di Liverpool. Nella cittadina inglese la CO2 verrà catturata dalle industrie locali (acciaierie, cementifici, raffinerie, fertilizzanti, cartiere), trasportata con condotte alle piattaforme offshore e lì iniettata nel sottosuolo.
Sul progetto è intervenuto Alessio Vacchi, segretario generale della Filctem Cgil Ravenna: "L’obiettivo di tutti – ha auspicato – deve essere ridurre, anzi, azzerare le emissioni di CO2 nel più breve tempo possibile, iniziando oggi l’abbattimento e non tra cinque, dieci o quindici anni”. Secondo il leader provinciale dei chimici, la cattura e stoccaggio della CO2 rappresenta oggi la strada più veloce e concreta per rendere a impatto zero un'area industriale articolata e complessa come quella ravennate. “Una sfida complicata – spiega – che ci obbliga a percorrere tutte le strade oggi a disposizione, a partire dagli investimenti nelle fonti energetiche non fossili”. A Ravenna, oltre a questo progetto, è già in fase avanzata la realizzazione di un parco fotovoltaico-eolico a mare per la produzione di idrogeno verde, ossia ottenuto totalmente attraverso fonti rinnovabili. Secondo Vacchi, la vera sfida della transizione energetica deve mirare alla sostenibilità ambientale senza lasciare in secondo piano quella sociale.
Il progetto è diviso in due parti, entrambe a ridosso di piattaforme Oil&Gas. A sud del porto di Ravenna, a 12 miglia dalla costa, sorgerà un impianto eolico fisso da 200 MW, un fotovoltaico galleggiante da 100 MW, un impianto per la produzione di idrogeno verde e un sistema di accumulo da 50 MW di potenza. A nord del porto di Ravenna, a 14 miglia dalla costa, Qint'X e Saipem realizzeranno invece un impianto eolico fisso da ulteriori 400 MW di potenza.
A Ravenna, la CO2 verrebbe trasportata attraverso condotte alle piattaforme già presenti su giacimenti esauriti, compressa fino a renderla liquida e iniettata a tremila metri di profondità. Secondo l'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste non esistono rischi di fuoriuscite di gas, peraltro inerte, e non soggetto a esplosioni: i giacimenti hanno contenuto metano per milioni di anni, sono protetti da strati di materiali impermeabili e in 60 anni di sfruttamento non si sono mai registrati problemi sismici.
«A Ravenna pretendiamo vengano utilizzate
solo le migliori tecnologie e le migliori procedure
per tutelare ambiente e sicurezza»
Michele de Pascale, sindaco di Ravenna dal 2016, punta apertamente sul progetto di stoccaggio della CO2. "La tendenza generale – dichiara ai microfoni di Collettiva – è di non volere nelle proprie vicinanze installazioni di cui pretendiamo l'esistenza perché necessari. Tutti vogliamo crescita e sviluppo, posti di lavoro e una corretta gestione del ciclo dei rifiuti. Però appena si decide di realizzare un impianto, tutti vorrebbero fosse costruito altrove". Per il primo cittadino ravennate "Essere proattivi rispetto all'occupazione, allo sviluppo e alla crescita, non può essere letto come una mancanza di attenzione rispetto alla sicurezza della salute dei lavoratori, dei cittadini o dell'ambiente”. E sottolinea: ”Chi vuole investire nel nostro territorio deve sapere di trovarsi tra persone ospitali ma con alte pretese. Perché a Ravenna pretendiamo vengano utilizzate solo le migliori tecnologie e le migliori procedure per tutelare ambiente e sicurezza".
Ravenna è una città industriale, portuale, riconosciuta a livello europeo come strategica. Una città d’arte che ospita quasi tre milioni di turisti all’anno. Per de Pascale "La retorica del 'meno industria e più turismo' andrebbe spiegata a quei lavoratori che oggi godono di tutele e livelli contrattuali elevati e che dovrebbero accontentarsi di impieghi precari o stagionali". Per il sindaco è necessario sgombrare il campo dalla retorica, impegnandosi a creare un mix di attività produttive e occupazionali che garantiscano tutti i settori. "Progetti come il CCS – sottolinea – possono tutelare un know how e livelli occupazionali che Ravenna ha ereditato dal passato. Ma la città vuole traguardare il futuro attraverso tutti i progetti previsti dalla necessaria transizione ecologica, rendendo il nostro distretto a zero impatto di carbonio”.
A Vernasca, in provincia di Piacenza, l’impianto pilota del progetto Cleanker
Il cemento è un materiale straordinario: consente di costruire intere città e permette di farlo a un corso ragionevolmente basso. I romani già utilizzavano un cemento molto resistente, ma la ricetta moderna risale a due secoli fa. Da allora è stato un vero e proprio boom e oggi nel mondo si producono oltre quattro miliardi e mezzo di tonnellate di cemento all'anno, ossia oltre cinque quintali per ogni abitante del pianeta. È stato calcolato che solo di un'altra sostanza consumiamo quantità superiori: l'acqua. Il fatto è che per produrre il cemento occorre produrre anche molta anidride carbonica: 670 grammi per ogni chilo. Una quantità non indifferente.
Nell'ottobre del 2020 è stato inaugurato a Vernasca, in provincia di Piacenza, l’impianto pilota del progetto Cleanker che utilizza una tecnologia per la cattura dell’anidride carbonica nelle cementerie. Il nome deriva da "clinker" o "klinker", un materiale laterizio ottenuto con la cottura delle materie prime a temperature molto elevate, ingrediente base della produzione del cemento. In questa fabbrica del gruppo Buzzi, il processo di trasformazione è stato modificato grazie alla collaborazione tra imprese e gruppi di ricerca tra cui il Laboratorio Energia e Ambiente di Piacenza, il Politecnico di Milano e partner accademici e industriali di cinque paesi europei, impegnati in un progetto finanziato dall'Unione. La modifica apportata all’impianto ha come obiettivo proprio la drastica riduzione delle emissioni di CO2.
Evitare di liberare CO2 in un cementificio è complicato. Perché la CO2 prodotta deriva da due fonti: i combustibili utilizzati negli impianti di cottura e la materia prima. Al termine del processo, la CO2 che proviene dalla materia prima è una volta e mezza rispetto a quella prodotta per far funzionare i forni. Anche utilizzando energia da fonti rinnovabili, in un cementificio è molto difficile azzerare le emissioni. Il progetto Cleanker mette a punto un sistema capace di togliere di mezzo tutta o quasi l'anidride carbonica, sia quella che proviene dalla materia prima, sia quella che deriva dai combustibili usati per alimentare l'impianto.
«Per ogni kg di cemento, si producono 670g di CO2.
Il progetto cleanker azzera le emissioni»
La lavorazione inizia in un impianto di cottura detto calcinatore. Il costituente principale della materia prima è il carbonato di calcio che una volta cotto libera una grande quantità di anidride carbonica trasformandosi in ossido di calcio. Questo deve poi essere inserito in un forno detto rotante dove si forma il klinker. Anche questo secondo processo libera una grande quantità di anidride carbonica.
Nel processo tradizionale, nei fumi di scarico l'anidride carbonica è mescolata ad altre sostanze come l'azoto dell'aria. Questo rende difficile catturarla. Per questo si è trovata una soluzione ingegnosa: cuocere la materia prima utilizzando solo ossigeno e non aria. In questo modo si ottiene una CO2 praticamente pura, pronta per essere messa da parte.
Nel prosieguo della lavorazione è possibile utilizzare parte dell'ossido di calcio prodotto nel calcinatore per assorbire la CO2 prodotta all'interno del forno rotante, come se fosse una spugna. Al termine del processo lo si riporta nel calcinatore dove la CO2 viene "strizzata" dall’ossido di calcio e anche qui è possibile catturarla senza liberarla in atmosfera. È la prima volta che un sistema di questo genere viene sperimentato in un impianto industriale, per verificare che funzioni sul campo, e non solo in laboratorio.
Orizzonti
La CCS può essere uno strumento utile, a patto che non venga concepita come uno strumento sostitutivo di una politica di riduzione dei consumi di combustibili fossili, concretizzata attraverso l’impiego sempre più diffuso di energie rinnovabili, la ricerca per far divenire queste tecnologie economicamente sostenibili a livello globale e senza spostare il problema ambientale dalla produzione di CO2 all’inquinamento derivante dai materiali attualmente utilizzati per la produzione e l’accumulo di energia green.
Secondo la Filctem Cgil, la cattura della CO2 potrebbe configurarsi come un’appendice nella catena produttiva, doverosa, ogni qual volta ci si trovi di fronte a fonti di grandi concentrazioni di emissioni climalteranti. “È necessaria una visione non idealizzata del processo di decarbonizzazione – sottolinea il sindacato dei chimici –: le grandi compagnie petrolifere hanno prodotto utili enormi dai carburanti fossili, ma hanno anche maturato grandi capacità tecnologiche per le quali non solo possono, ma devono sviluppare e migliorare i sistemi di captazione della CO2. Questo potrà costituire per loro una nuova fonte di guadagno, ma creerà un nuovo settore occupazionale altamente qualificato volto alla transizione green, senza inficiare gli investimenti operati dalle big energetiche anche nel settore del solare, eolico, geotermico, anch’essi, non nascondiamocelo, interessanti business”.
«Il risultato della neutralità climatica deve essere ambìto
da tutti gli attori sociali, incluso il sindacato»
“La pretesa – prosegue la Filctem – deve essere quella della trasparenza dei dati, della certezza dei controlli, della fermezza della riduzione globale dei consumi dei fossili, confinandoli sempre più alla quota indispensabile destinata all’uso come materia prima, e non più come combustibile. Si deve esigere il miglior controllo ambientale possibile nelle estrazioni, considerandole nella loro dimensione di possibile fonte globale di inquinamento, privilegiando perciò quelle effettuate in paesi con una reale normativa ambientale, come in Italia e in Europa, rispondendo anche al tema sociale legato ai costi dell’energia”.
Per la federazione della Cgil “il risultato della neutralità climatica deve essere ambìto da tutti gli attori sociali, incluso il sindacato, e l’approccio in grado di raggiungere questo risultato nel più breve tempo possibile, senza elevare le disuguaglianze sociali, è quello tecnologicamente multilaterale, tra cui la CCS può trovare un suo ruolo, accompagnato da un indispensabile processo di maturazione della coscienza collettiva, attraverso il coinvolgimento più ampio e consapevole delle persone, del rispetto per l’ambiente, del riciclo/riuso e del contenimento dei consumi energetici”.
Conclude la Filctem Cgil: “Solo adottando una linea più ricca di idee piuttosto che di idealismi, riusciremo ad affrontare la transizione energetica per quello che è: un lungo viaggio durante il quale sarà necessario usare diversi mezzi di trasporto. L’evoluzione tecnologica probabilmente migliorerà strada facendo, ma non potrà trarne giovamento solo la parte ricca del mondo, quella che a volte sembra dimenticare che c’è una dimensione temporale da equilibrare e rispettare, se ancora ambiamo a una just transition”.
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