Il 10 luglio 1976, nello stabilimento di Meda della multinazionale chimica Icmesa avvenne un incidente che ha causò la dispersione di diossina, una sostanza di cui era nota la tossicità anche se non era mai stata comunicata ai lavoratori direttamente interessati. L’analisi delle cause dell’incidente dimostrò che l'incidente si era verificato per un uso straordinario e imprevisto dell’impianto, quindi al di fuori delle corrette procedure. Inoltre, la fuoriuscita della sostanza, che non era il principio attivo prodotto nello stabilimento ma un residuo provocato da un riscaldamento anomalo, fu causata da una valvola che scaricò all’esterno e non in un luogo di abbattimento o di contenimento.

Oggi diremmo: cause note e prevedibili. Note, perché si conoscevano gli effetti dei prodotti in lavorazione. Prevedibili, con un’adeguata valutazione del rischio. Non solo. In un primo momento l’azienda cercò di minimizzare l’evento e le conseguenze. Non sospese neppure le lavorazioni, non avvisò i lavoratori. Solo la determinazione dei delegati sindacali e di alcuni operai evitò il peggio.

Successivamente, non ci si è mossi in una logica di apprendimento all’errore per evitare che si ripetesse. Nella stessa logica di retroguardia si è mossa la politica, che ha tardivamente adottato la normativa Seveso. Mentre questa legislazione diventava patrimonio europeo, l’Italia, che in qualche modo aveva contribuito alla gestione degli impianti da incidente rilevante, negava il problema. Ormai siamo alla terza revisione, ma il nostro Paese ha recepito le disposizioni sempre nell’ultimo giorno utile per evitare sanzioni. E sempre sotto la pressione delle parti sociali, con i sindacati in prima linea a difesa del principio di massima cautela.

Si tratta di una ricostruzione semplificata delle battaglie che sono durate anni, ma vorrei concentrarmi sui progressi compiuti in questi 45 anni. La tutela della sicurezza dei lavoratori nel 1976 era già una conquista, a partire dallo Statuto dei lavoratori del 1970 con i delegati all’ambiente, istituiti ben prima dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza introdotti dalla legge 626 del 1994. E Seveso segna una svolta nella consapevolezza dell’impatto ambientale delle attività produttive e industriali, che ha creato una contraddizione fra lavoro e tutela dell’ambiente, scaricata su lavoratrici e lavoratori.

Contraddizione solo apparente perché le forze sociali, come per la partita della sicurezza sul lavoro, hanno costruito le elaborazioni necessarie, negoziato piattaforme contrattuali, linee guida, con la collaborazione delle parti datoriali più attente. Perché non si è voluto cogliere il fatto che la tutela dell’ambiente, quindi del lavoratore che è cittadino della società civile, poteva essere un elemento di progresso, di elaborazione tecnica e scientifica. Quindi un’occasione per trasformare il problema in opportunità, non solo come questione etica.

Il tema del ciclo dei rifiuti è emblematico. Il miglioramento della gestione del rifiuto, non solo di quello tossico nocivo che ha un grande costo sociale, ma anche di quello urbano, non si ottiene solo con la riduzione del volume di produzione dallo stesso ma con il ripensare il ciclo integrato di vita del prodotto. L’economia circolare non si deve limitare allo smaltimento corretto dei rifiuti ma deve contribuire a riprogettare i processi produttivi e ottimizzare l’uso dell’energia.

Tutte le attività umane hanno un impatto sull’ambiente, usano materiali, di nuova estrazione o riciclati, e consumano energia nella produzione e nel successivo smaltimento. Non si può parlare di economia verde se semplicemente si sostituiscono i prodotti, traducendola in una sorta di green washing, e non si ragiona in un’ottica integrata, di ripensamento di tutta la filiera.

Il settore dell’auto, e più in generale del trasporto, è un altro esempio illuminante. Vogliamo limitarci a produrre veicoli meno inquinanti, lasciando che altri Paesi ne traggano vantaggio o vogliamo cercare di riprogettare l’intera filiera di produzione dei mezzi, a partire da dove e come realizzare le batterie, anch’esse non prive di impatto ambientale? Vogliamo ripensare il sistema di infrastrutture stradali, ferroviarie e fluviali, riqualificando e mettendo in sicurezza quelle esistenti, oppure vogliamo continuare a sfruttare il nostro suolo? In questo senso la rigenerazione urbana diventa un’opportunità per trasformare i problemi in soluzioni, che è la sfida a cui siamo chiamati.

Bisogna quindi uscire dagli slogan come “giusta transizione” e capire quali azioni si rendono necessarie perché la sostituzione delle attività produttive inquinanti non si scarichi sui lavoratori, non aumenti le disuguaglianze economiche e sociali, affinché possano accrescere competenze e formazione e garantire luoghi di lavoro sicuri e sani. Il sindacato è pronto, da tempo, anche con profonde discussioni interne. Lo sono le aziende e la politica? E la società civile è pronta alla svolta, anche cambiando il suo stile di vita e di consumo?

Massimo Balzarini è segretario regionale Cgil Lombardia