Un’Italia sempre più calda, con più incendi, ondate di calore che si abbatteranno sulle città,  disponibilità di acqua ridotta del 40 per cento, piogge molto violente. Questo è il clima che ci aspetta, secondo lo scenario delineato dai ricercatori della Fondazione Cmcc, Centro euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici, che attraverso sofisticati modelli matematici ha elaborato proiezioni basate sull’efficacia dei nostri interventi per mitigare il riscaldamento globale. Lo scenario drammatico di un Paese, quello che erediteranno i nostri figli, che rischia temperature più alte di 2°C nel periodo 2021-2050 (rispetto al 1981-2010) e di 5° C entro il 2100 nell’ipotesi peggiore. Non solo. Stando al rapporto “Analisi del rischio” curato da Donatella Spano e Valentina Mereu, il climate change potrebbe costarci fino all’8 per cento del Pil, con ricadute importanti su tutti i settori economici.

Qualche esempio? Solo nell’agricoltura i danni si aggirano tra gli 87 e i 162 miliardi di euro tra 80 anni: la produttività per le colture a ciclo primaverile ed estivo diminuirà, la coltivazione di olivo e vite potrebbe spostarsi verso nord. Ma l’aumento delle temperature avrà conseguenze anche sull’allevamento del bestiame, sottoposto a stress, mentre la maggiore concentrazione di CO2 rischia di influenzare negativamente la qualità nutrizionale di alcuni prodotti come i cereali. Nell’ambito del turismo gli scienziati hanno stimato una contrazione sulla domanda totale italiana che può sfiorare il 9 per cento, con perdite dirette per il settore tra i 17 e 52 miliardi di euro nei due scenari climatici. Stesso discorso per le conseguenze del dissesto idrogeologico: il 91 per cento dei comuni italiani è a rischio frane e alluvioni,  7 milioni di persone vivono in aree definite ad alta pericolosità. Il tutto si traduce in un costo di 15,2 miliardi di euro l’anno nel periodo 2071-2100.

Come se non bastasse, i cambiamenti climatici aumentano la disuguaglianza economica tra regioni: gli impatti negativi tendono a essere maggiori nelle aree relativamente più povere. La stessa cosa accade nel resto del mondo. Secondo l'indagine Oxfam-Stockholm Environment Institute, i più agiati del pianeta e cioè 63 milioni di persone, hanno emesso il 15 per cento di anidride carbonica globale, mentre la rimanente popolazione, 3,1 miliardi di persone, solo il 7 per cento. In definitiva, l’1 per cento più ricco del pianeta inquina il doppio della metà più povera. In definitiva, lo stile di vita, di produzione e di consumo di una piccola e privilegiata fascia di abitanti del pianeta sta alimentando la crisi climatica e a pagarne il prezzo sono i più poveri del mondo e saranno in futuro le giovani generazioni.

“La missione del Green Deal comporta molto di più che un taglio di emissioni, si tratta di creare un mondo più forte in cui vivere – ha dichiarato l’altro giorno la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione, all’Eurocamera, a Bruxelles -. Dobbiamo cambiare il modo in cui trattiamo la natura. È per questo che il 37 per cento di Next Generation EU (il Recovery Fund, ndr) sarà speso per i nostri obiettivi del Green Deal”. E mentre i dati preliminari dell’Agenzia europea per l’ambiente ci dicono che i gas serra sono diminuiti del 24 per cento rispetto al 1990, superando così il target fissato per quest’anno, con l’allentamento delle restrizioni imposte dalla pandemia da Covid-19, le emissioni di CO2 torneranno a crescere.

“Molte attività mondiali si sono fermate durante il lockdown e il pianeta è diventato sempre più caldo - ha aggiunto la presidente della Commissione europea -. Sappiamo che è necessario il cambiamento e sappiamo che è possibile. Il Green Deal è il nostro piano per realizzare questa trasformazione: vogliamo diventare il primo continente neutro entro il 2050, ma non ce la faremo con questo status quo, quindi dobbiamo essere più rapidi”. La sfida lanciata da Ursula von der Leyen, è ambiziosa: taglio del 55 per cento (e non più il 40) delle emissioni di gas serra entro il 2030. Tradotto, vuole dire transizione energetica rapida, spinta ulteriore alla diffusione delle rinnovabili e all’efficienza energetica, una conversione ecologica del sistema produttivo e della nostra economia. Tutti passi che il nostro Paese è chiamato a compiere, tutelando i livelli occupazionali.